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Nel Dna umano un gene divino

Sette versetti, nei quali Gesù ripropone, per sette volte, il centro del suo messaggio: in principio a tutto e a compimento di tutto, è posta la stessa azione: amare, pietra d'angolo e chiave di volta della vita viva. «La legge tutta è preceduta da un “sei amato” e seguita da un “tu amerai”. Sei amato, fondazione della legge; amerai, il suo compimento. Chiunque astrae la legge da questo principio amerà il contrario della vita» (P. Beauchamp). Amerà la morte.«Se mi amate».

Gesù non detta regole, si fa mendicante d'amore rispettoso e paziente. Entra silenzioso e a piedi nudi nel tessuto più intimo della vita. Non rivendica amore per sé, lo spera. Lo fa con estrema delicatezza, mettendo a capo di tutto un “se”. Il punto di partenza più umile, fragile, fiducioso, paziente: «se mi amate». Nessuna minaccia, nessun ricatto. Puoi accogliere o no, in totale libertà.

Ma amarlo è pericoloso: amore è parola che brucia le labbra se pronunciata male, se suona incoerente. «Se mi amate, osserverete...» un bellissimo automatismo, radice della coerenza: solo se ami, osservi. Che cosa? «I miei comandamenti». Non le tavole di pietra del Sinai, ma il suo, il nuovo, l'unico, la cronaca del suo amore diventata legge: lui che si perde dietro alla pecora perduta, dietro a pubblicani e prostitute e vedove povere, che fa dei bambini i principi del regno, che ama per primo e in perdita.

Il secondo termine decisivo del Vangelo di oggi è una parolina, brevissima, ma esplosiva come una mina disseminata in tutto il brano, la preposizione “in”: «voi in me e io in voi». Dio dentro di me e io dentro Dio, innestato, immerso. E non è fatica di conquista, vetta che non raggiungi. Ci siamo già dentro, dobbiamo solo prenderne coscienza! E non scappare, non fuggire dietro agende e telefonini, ma ascoltare la sua richiesta sommessa: resta con me, rimani in me! Gusto l'immagine di me immerso “in” Dio, tralcio della vite madre, stessa linfa, stessa vita; raggio del sole, stessa luce, stesso fuoco; goccia d'acqua dello stesso oceano. C'è un cromosoma divino nel nostro Dna. Per questo la nostra vita è piena di futuro. Infatti il brano è tutto sotteso da un filo d'oro di verbi al futuro: “pregherò, vi darò, non vi lascerò, verrò, mi vedrete, saprete, vivrete, amerò, mi manifesterò”.

Che senso di vitalità e di strade spalancate, di gemme che si schiudono e di nascite! Abbiamo un Dio che presiede a tutte le nascite, che ci precede su tutte le strade, che irrompe dal futuro e non dal passato.«Non vi lascerò orfani, io vivo e voi vivrete». Far vivere è la vocazione di Dio, il suo mestiere. La prima legge di Dio è che l'uomo viva e questa è anche tutta la sua gioia.

Padre Ermes Ronchi

Camminiamo sulle orme di Gesù verso il Padre

Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via? Gesù non risponde: «io “conosco bene” la strada e adesso ve la descrivo e poi vi passo le coordinate»; dice invece: «Guardami Tommaso, sono io la via».

La strada verso Dio, verso il cuore caldo della vita, è la vita di Cristo. Guardi Gesù, come vive, come si commuove e tocca, come va incontro, come muore, e capisci Dio e la vita. E se voglio entrare in quel mistero metterò i miei passi sui suoi passi, preferirò coloro che lui preferiva, rinnoverò con le mie le sue scelte, mi muoverò solo dietro alla sua stella polare. J, Maritain mette in bocca a Gesù questo invito: «Non cercatemi in un luogo, ma là dove amo e sono amato».

“Io sono la verità”. Come io vivo è il vivere vero, come mi comporto con i piccoli e con le donne, con i poveri cristi e con i Pilato di turno, con gli uccelli e con i fiori del campo, con il Padre e l'ultima pecora... La verità è fatta di carne, ieri baciata, tra poco straziata.

Verità disarmante è il suo muoversi libero, regale e amorevole tra le creature. Mai arrogante e sempre senza compromessi. Diritto e sicuro.

La verità è coraggiosa e amabile. Quando invece è arrogante e senza tenerezza, è una malattia che ci fa tutti malati di violenza. La verità dura, dispotica, gridata da parole di pietra «è così e basta», non è la voce di Dio. Dio è verità amabile, di occhi e mani accesi!

Io sono la vita. Parole che nessuna spiegazione può esaurire. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth? La risposta è una pretesa eccessiva e sconcertante: io faccio vivere.

Io sono la vita. Allora più Vangelo entra in me, più vita si aggiunge alla vita. Quella vita che si oppone alla pulsione di morte, all'auto distruttività che coltiviamo in noi, alle paure, alla sterilità di una vita inutile.

Vita è tutto ciò che possiamo mettere sotto questo nome: futuro, amore, casa, festa, riposo, desiderio, pasqua, felicità. Per questo fede e vita, sacro e realtà, hanno l'identica sorgente, e coincidono.

I gesti e le parole di Gesù sono energia che sa scheggiare le corazze dure, fa fiorire la corteccia malata della storia, fa sognare terra nuova e cieli nuovi, se e quando la sua tenerezza attraversa le nostre mani.

Il mistero di Dio non è lontano da te, è nella tua vita: vive nel tuo nascere, amare, dubitare, credere, perdere, illuderti, osare, generare... In ogni tuo amore è Lui che ama. Il mistero di Dio non è lontano, ma è la strada sottesa ai nostri passi. Se Dio è la vita, allora «c'è della santità nella vita, viviamo la santità del vivere» (Abraham Hescel). Per questo fede e vita, spiritualità e realtà non si oppongono, ma si incontrano e si baciano, come nei Salmi.

Padre Ermes Ronchi

Gesù chiama per nome donandoci la vita

Per me, una delle frasi più solari del Vangelo, dove appoggio la mia fede, che mi rigenera ogni volta che l'ascolto: sono venuto perché abbiano la vita; è venuto per la mia vita piena, abbondante, gioiosa. Non per quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma quella esuberante, eccessiva, che rompe gli argini e tracima, scialo di libertà e coraggio. La parola “vita” lega insieme tutta la Scrittura; è supplica nei Salmi: fa' che io viva! Fammi camminare sui campi della vita!

Giona si adira con Dio perché, invece di distruggere Ninive, è pastore per i centoventimila della città che non distinguono la destra dalla sinistra. Il primo di tutti i comandamenti, quello che introduce l'intera sezione della legge è: «Hai davanti a te la vita e la morte. Scegli!». E intende: scegli la vita! Vita è tutto ciò che possiamo pensare per riempire questo nome. È proprio la piccola parola “vita” a rendere inconciliabili il pastore e il ladro. Il pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome. L'eccedenza di Dio. Quale pastore ha dato un nome a tutte le pecore? Ad alcune sì, magari a molte, ma le centinaia di pecore del suo gregge, chi può distinguerle e ricordarle? Chi perde tempo a recitare ogni mattina tutta la litania dei loro nomi, anziché un solo fischio o un richiamo unico per tutte?

Ma è proprio scritto così: le chiama ciascuna per nome. Per noi il gregge è anonimato, fine dell'identità, omologazione. Per Gesù, no: mi dà tempo, dice il mio nome, gli sto a cuore, non mi confonde con nessun altro. E le conduce fuori. Anzi, «le spinge fuori». Non in un altro recinto magari più grande, ma fuori per spazi aperti. Io sono la porta. Non eleva muri o steccati a dividere; Cristo è passaggio, apertura, pasqua, breccia di luce, vita che entra ed esce. Pastore pieno di futuro, porta dell'amore leale e sicuro (chi entra attraverso di me si troverà in salvo), più forte di ogni prigione (potrà entrare e uscire), dove placare la fame e la sete della storia (troverà pascolo).

E cammina davanti alle pecore. Pastore apripista, che non sta alle spalle a richiamare e ad agitare il bastone, non è un cane da pastore che deve tenere in riga le pecore. Non gli interessa. Le pecore stanno in riga perché intravedono davanti uno di cui hanno fiducia, vedono la strada che fa, sanno che è sicura, sanno che in fondo a quella fila c'è profumo di vita. E Gesù si definisce come porta: non un muro, o un vecchio recinto, dove giri e rigiri e torni sui giri di prima, non un guinzaglio, né corto né lungo. Cristo è porta aperta, buco nella rete, breccia nel muro, passaggio, transito, spazio per il cuore, per cui va e viene il respiro di terra e cieli nuovi.

Padre Ermes Ronchi

Gesù non chiede non spezza offre tutto

Il Vangelo di Emmaus si dipana come una grande liturgia in tre tempi: la liturgia della strada, della parola, del pane.

Emmaus dista undici chilometri da Gerusalemme, tre ore di cammino, trascorse a parlare del sogno in cui avevano tanto investito, naufragato nel sangue. Ed ecco, Gesù si avvicinò e camminava con loro. Come un Dio sparpagliato per tutte le strade, che non impone nessun passo, prende il mio. Gli basta il passo del momento, quello quotidiano. Ogni camminare gli va bene, purché sia cammino.

Poi, la liturgia della parola: e cominciando da Mosè e dai profeti spiegava loro le scritture, spiegava la vita con la Parola, spiegava che la Croce non è un incidente, ma la pienezza. E i due scoprono l'immensa verità: vedono un Dio che, così nascosto da sembrare assente, tesse il filo d'oro nella tela del mondo a partire dal punto più oscuro, la croce. Ora sanno che la mano di Dio più sembra nascosta, più è potente. Più è silenziosa, più è efficace. Giunti a Emmaus Gesù mostra di voler “andare più lontano”. Come un senza fissa dimora, un Dio migratore per spazi liberi e aperti che appartengono a tutti. Allora si apre la liturgia del pane, attorno al primo altare che è la tavola di casa: lo riconobbero nello spezzare il pane. Sì, perché un giovedì, al tramonto Gesù aveva pronunciato parole terribili su del pane e del vino: prendete e mangiate. Questo è il mio corpo. È il Tutto di me, fino all'ultima fibra, fino all'ultima ferita. È per voi. La storia di Gesù profuma di pane.

Il pane, buono da solo e buono con tutto.

Ma spezzare il pane non mostra la conclusione, è solo il primo tempo del donare. Prendo qualcosa di mio e lo do a te. Lascio nelle tue mani un pezzo di me, una porzione, una frazione, briciole, qualcosa che da mio diventa tuo. Spezzare: vi è riassunta l'anima di Gesù, la sua storia, la sua missione. Lui non spezza nessuno, spezza se stesso. Lui non chiede nulla, offre tutto. Per secoli la Messa è stata chiamata fractio panis, lo spezzare il pane e il donarlo.

Preso da Isaia 58: spezza il tuo pane con l'affamato e la tua fame finirà; illumina altri e ti illuminerai; guarisci la ferita d'altri e guarirà la tua ferita. L'asse portante del vangelo è il dono e non il sacrificio. Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, partono come chiamati, come se la notte non dovesse venire più, partono con il sole dentro, senza paura. Un miracolo. Ma il primo miracolo è stato un altro: non ci bruciava forse il cuore mentre per via ci spiegava il senso delle Scritture e della vita? Perché «chi mangia me, mangia il fuoco! Abbiamo mangiato il fuoco nel pane».

Padre Ermes Ronchi

La pace del Signore scende sulle nostre paure

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei ma anche di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. Sembra che manchi l'aria.

Eppure Gesù viene, nonostante il loro e il mio cuore inaffidabile: e stette in mezzo a loro. Mi conforta pensare che se trova chiuso lui non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì. Shalom, ha detto, saluto biblico che significa molto più della pace come semplice fine delle violenze, indica la forza dei miti e dei nonviolenti dentro la logica del più armato, la luce dei puri di cuore dentro la nebbia delle astuzie, la serenità dei giusti nelle ingiustizie, la perseveranza degli onesti fra le disonestà. Soffiò e disse: ricevete lo Spirito Santo.

Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, il vento sottile dell'Oreb su Elia profeta, quello che scuoterà le porte chiuse del cenacolo: ecco io vi mando! «Se non vedo e non tocco, non crederò». Povero, caro Tommaso, diventato addirittura proverbiale! Vuole delle garanzie, e ha ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne uscirà rovesciata.

Gesù si avvicina alla nostra lentezza del credere con pochi, semplici verbi: guarda, metti, tocca. Tommaso comprende da quei fori il motivo per cui Cristo è risorto: per un amore scritto con ferite ormai incancellabili, da cui non sgorga più sangue ma luce. Tommaso si arrende non ai suoi occhi o al suo toccare, ma a questa esperienza di pace offerta da Gesù per ben tre volte. E la sua pace scende ancora sulle nostre sconfitte, sulle nostre chiusure, sulle nostre paure. Alla fine Tommaso passa dall'incredulità all'estasi. Se poi abbia toccato o no il corpo del Risorto, non è importante. «Mio Signore e mio Dio» Tommaso ripete quel piccolo “mio” che cambia tutto, che non indica possesso geloso, ma appartenenza, eco del Cantico dei Cantici: il mio amato è mio e io sono sua! Mio Signore, che mi fai vivere, che sei la parte migliore di me. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.

Beati quelli che senza aver visto crederanno. Beatitudine consolante che finalmente sento mia. Gesù mi dice beato! Beato chi fa fatica, chi cerca a tentoni, chi non vede ancora eppure cammina avanti, “siamo pellegrini senza strada, ma tenacemente in cammino” (Giovanni della Croce). La fede è il rischio di essere beati, cioè felici.

Di vivere una vita non certo più facile, ma più piena e appassionata. Ferita sì, talvolta, ma luminosa comunque e perfino guaritrice. Così termina il Vangelo, così inizia la mia sequela: col rischio di essere felice.

Padre Ermes Ronchi

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