Giovanni Battista ci narra qualcosa relativamente a come poter vivere il tempo dell’attesa. Infatti, tutto ciò che di Giovanni è detto trova la sua ragion d’essere e viene compreso nell’attesa di Colui che viene. Giovanni non è per sé ma è un essere in relazione con Gesù. Una relazione che si fonda sull’attesa. Giovanni è precursore di Gesù nel suo essere attualizzazione delle Scritture veterotestamentarie e il suo compito, sintetizzato nella citazione preparare la via e rendere dritti i sentieri (Es. 23, 20; Ml 3, 1 e Isaia 40,3), si esplicita nel battesimo di conversione per il perdono dei peccati con cui anticipa quel volto di misericordia di Dio che troverà la sua compiutezza nel Battesimo in Spirito Santo. C’è un movimento verso di lui da parte di tutti gli abitanti della Giudea e di Gerusalemme. Una uscita (Es. 13, 4.8; Dt. 11.10) con una universalità di adesione per un desiderio condiviso di conversione. La conversione in Marco è una possibilità offerta a tutti indistintamente a patto di un riconoscimento della propria debolezza (v 5 “confessando i loro peccati”). È solo a partire da questo guardare profondamente in noi stessi che è possibile il cambiamento di mentalità che ogni conversione richiede. Dopo la vigilanza che ci veniva offerta nella prima domenica di Avvento come dimensione di responsabilità di fronte alla vita e a noi stessi, in questo brano si richiede al cristiano un ulteriore passo sul cammino della responsabilità (il verbo shuv da cui deriva “conversione” che significa “ritornare” è anche connesso alla radice di “rispondere”): un indirizzare i propri passi nel ripercorrere quella via che è stata segnata da Gesù e di cui scorgiamo il percorso nell’ascolto della sua Parola. Giovanni ha i tratti del profeta sia nell’abbigliamento (cfr. Elia in 2Re 1,8) che nel suo essere fuori dai luoghi ufficiali. Il suo stare nel deserto è una scelta di radicalità, un essere nel luogo scelto da Dio per legarsi al suo popolo nell’alleanza (Es. 19-24; Os. 2, 14) ma anche in quello spazio esistenziale in cui, sperimentando l’assenza e la privazione, si può ritornare all’essenziale. Il cibo di Giovanni è quello di chi non ha fissa dimora, di chi sceglie di essere ai margini della società. Differentemente dai brani paralleli di Luca e Matteo (Lc 3, 7-9 e Mt 3, 7-10), in Marco non viene fatto alcun cenno alla durezza con cui Giovanni si rivolge alla classe dirigente (farisei e sadducei), accusata di legalismo e di ricerca di approvazione esteriore, tuttavia rimane ferma una volontà di opposizione e di fuga dai centri del potere politico e religioso. Giovanni rifugge da qualsiasi protagonismo, tant’è che si dichiara indegno pure di sciogliere i legacci dei sandali dell’Altro per cui opera, e prende le distanze da tutto ciò che rimanda a vuoti comportamenti esteriori e pure pratiche precettistiche che non si fondano in una autentica ricerca di senso. Il suo essere nel deserto gli permette quella presa di consapevolezza che è il primo passo di ogni discernimento che precede un cambiamento di mentalità, un riorientamento del nostro rapporto con Dio che guarda all’essenziale.
da Comunità Kairòs