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A Cesare ciò che è di Cesare. E noi siamo del Signore

 

La trappola è ben congegnata: È lecito o no pagare il tributo a Roma? Stai con gli invasori o con la tua gente? Con qualsiasi risposta Gesù avrebbe rischiato la vita, o per la spada dei Romani, come istigatore alla rivolta, o per il pugnale degli Zeloti, come sostenitore degli occupanti. Erodiani e farisei, due facce note del pantheon del potere, pur essendo nemici giurati tra loro, in questo caso si accordano contro il giovane rabbi di cui temono le parole e vogliono stroncare la carriera.
Ma Gesù non cade nella trappola, anzi: ipocriti, li chiama, cioè commedianti, la vostra esistenza è una recita. Mostratemi la moneta del tributo. Siamo a Gerusalemme, nell'area sacra del tempio, dove era proibito introdurre qualsiasi figura umana, anche se coniata sulle monete. Per questo c'erano i cambiavalute all'ingresso. I farisei, i puri, con la loro religiosità ostentata, portano dentro il luogo più sacro della nazione, la moneta pagana proibita con l'effigie dell'imperatore Tiberio. I commedianti sono smascherati: sono loro, gli osservanti, a violare la norma, mostrando di seguire la legge del denaro e non quella di Mosè. Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare. È lecito pagare? avevano chiesto. Gesù risponde impiegando un altro verbo, restituire, come per uno scambio: prima avete avuto, ora restituite. Lungo è l'elenco: ho ricevuto istruzione, sanità, giustizia, coesione sociale, servizi per i più fragili, cultura, assistenza... ora restituisco qualcosa.
Rendete a Cesare, vale a dire pagate tutti le imposte per servizi che raggiungono tutti. Come non applicare questa chiarezza immediata di Gesù ai nostri giorni di faticose riflessioni su manovre finanziarie, tasse, fisco; ai farisei di oggi, per i quali evadere le imposte, cioè non restituire, trattenere, è normale?
E aggiunge: Restituite a Dio quello che è di Dio. Di Dio è la terra e quanto contiene; l'uomo è cosa di Dio. Di Dio è la mia vita, che «lui ha fatto risplendere per mezzo del Vangelo» (2Tm 1,10). Neppure essa mi appartiene.
Ogni uomo e ogni donna vengono al mondo come vite che risplendono, come talenti d'oro su cui è coniata l'immagine di Dio e l'iscrizione: tu appartieni alle sue cure, sei iscritto al suo Amore. Restituisci a Dio ciò che è di Dio, cioè te stesso.
A Cesare le cose, a Dio le persone. A Cesare oro e argento, a Dio l'uomo.
A me e ad ogni persona, Gesù ripete: tu non appartieni a nessun potere, resta libero da tutti, ribelle ad ogni tentazione di lasciarti asservire.
Ad ogni potere umano il Vangelo dice: non appropriarti dell'uomo. Non violarlo, non umiliarlo: è cosa di Dio, ogni creatura è prodigio grande che ha il Creatore nel sangue e nel respiro.

 
padre Ermes Ronchi

Al banchetto del Re non persone perfette ma in cammino

C'è, nella città, una grande festa: si sposa il figlio del re, l'erede al trono, eppure nessuno sembra interessato; nessuna almeno delle persone importanti, quelli che possiedono terreni, buoi e botteghe. È la fotografia del fallimento del re. Che però non si arrende al primo rifiuto, e rilancia l'invito. Come mai di nuovo nessuno risponde e la festa promessa finisce nel sangue e nel fuoco? È la storia di Gesù, di Israele, di Gerusalemme...
Allora disse ai suoi servi: andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
Per la terza volta i servi ricevono il compito di uscire, chiesa in uscita, a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita e di festa. Se i cuori e le case si chiudono, il Signore, che non è mai a corto di sorprese, apre incontri altrove. Neanche Dio può stare solo. L'ordine del re è illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti, razza, moralità. L'invito potrebbe sembrare casuale, invece esprime la precisa volontà di raggiungere tutti, nessuno escluso.
Dai molti invitati passa a tutti invitati, dalle persone importanti passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni, senza mezze misure, senza bilancino, senza quote da distribuire...
Il Vangelo mostra che Lui non cerca uomini perfetti, non esige creature immacolate, ma vuole uomini e donne incamminati, anche col fiatone, anche claudicanti, ma in cammino. È così il paradiso. Pieno di santi? No, pieno di peccatori perdonati, di gente come noi. Di vite zoppicanti. Il re invita tutti, ma non a fare qualcosa per lui, ma a lasciargli fare delle cose per loro: che lo lascino essere Dio!
Il re entrò nella sala... Noi pensiamo Dio lontano, separato, sul suo trono di gloria, e invece è dentro la sala della vita, in questa sala del mondo, è qui con noi, uno cui sta a cuore la gioia degli uomini, e se ne prende cura; è qui, nei giorni delle danze e in quelli delle lacrime, insediato al centro dell'esistenza, nel cuore della vita, non ai margini di essa.
E si accorge che un invitato non indossa l'abito delle nozze. Tutti si sono cambiati d'abito, lui no; tutti anche i più poveri, non so come, l'hanno trovato, lui no; lui è come se fosse rimasto ancora fuori dalla sala. È entrato, ma non credeva a una festa. Non ha capito che si fa festa in cielo per ogni peccatore pentito, per ogni figlio che torna, per ogni mendicante d'amore. Non crede che Dio mostri il suo volto di padre nei racconti di un Rabbi che amava banchetti aperti per tutti.


padre Ermes Ronchi

Gesù ci chiede: siamo cristiani di facciata o di sostanza?

Un uomo aveva due figli!. Ed è come dire: Un uomo aveva due cuori. Ognuno di noi ha in sé un cuore diviso; un cuore che dice “sì” e uno che dice “no”; un cuore che dice e poi si contraddice. L'obiettivo santo dell'uomo è avere un cuore unificato. Il primo figlio rispose: non ne ho voglia, ma poi si pentì e vi andò. Il primo figlio è un ribelle; il secondo, che dice “sì” e non fa, è un servile. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, che vive la perfetta coerenza tra il dire e il fare. Il primo figlio, vivo, reattivo, impulsivo che prima di aderire a suo padre prova il bisogno imperioso, vitale, di fronteggiarlo, di misurarsi con lui, di contraddirlo, non ha nulla di servile. L'altro figlio che dice “sì, signore” e non fa è un adolescente immaturo che si accontenta di apparire. Uomo di maschere e di paure. I due fratelli della parabola, pur così diversi, hanno tuttavia qualcosa in comune, la stessa idea del padre: un padre-padrone al quale sottomettersi oppure ribellarsi, ma in fondo da eludere. Qualcosa però viene a disarmare il rifiuto del primo figlio: si pentì. Pentirsi significa cambiare modo di vedere il padre e la vigna: la vigna è molto più che fatica e sudore, è il luogo dove è racchiusa una profezia di gioia (il vino) per tutta la casa. E il padre è custode di gioia condivisa.

Chi dei due figli ha fatto la volontà del Padre? Parola centrale. Volontà di Dio è forse mettere alla prova i due figli, misurare la loro obbedienza? No, la sua volontà è la fioritura piena della vigna che è la vita nel mondo; è una casa abitata da figli liberi e non da servi sottomessi. Gesù prosegue con una delle sue parole più dure e più consolanti: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio. Perché hanno detto “no”, e la loro vita era senza frutti, ma poi hanno cambiato vita. Dura la frase! Perché si rivolge a noi, che a parole diciamo “sì”, ma poi siamo sterili di frutti buoni. Cristiani di facciata o di sostanza? Solo credenti, o finalmente anche credibili?

Ma è consolante questa parola, perché in Dio non c'è ombra di condanna, solo la promessa di una vita totalmente rinnovata per tutti. Dio non rinchiude nessuno nei suoi ergastoli passati, nessuno; ha fiducia sempre, in ogni uomo; ha fiducia nelle prostitute e ha fiducia anche in me, in tutti noi, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi. Dio si fida del mio cuore. E io «accosterò le mie labbra alla sorgente del cuore» (San Bernardo) unificato, «perché da esso sgorga la vita» (Proverbi 4,23), il senso, la conversione: Dio non è un dovere, è stupore e libertà, un vino di festa per il futuro del mondo.

padre Ermes Ronchi

L'economia del Signore: amare in «perdita»

Il Vangelo è pieno di vigne e di viti, come il Cantico dei cantici. La vigna è, tra tutti, il campo più amato, in cui il contadino investe più lavoro e più passione, gioia e fatica, sudore e poesia. Vigna di Dio e suoi operai siamo noi, profezia di grappoli colmi di sole.

Un padrone esce all'alba in cerca di lavoratori, e lo farà per ben cinque volte, fino quasi al tramonto, pressato da un motivo che non è il lavoro, tantomeno la sua incapacità di calcolare le braccia necessarie. C'è dell'altro: Perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente? Il padrone si interessa e si prende cura di quegli uomini, più ancora che della sua vigna. Qui seduti, senza far niente: il lavoro è la dignità dell'uomo. Un Signore che si leva contro la cultura dello scarto!

E poi, il cuore della parabola: il momento della paga. Primo gesto contromano: cominciare dagli ultimi, che hanno lavorato un'ora soltanto. Secondo gesto contro logica: pagare un'ora soltanto di lavoro quanto una giornata di dodici ore.

Mi commuove il Dio presentato da Gesù: un Dio che con quel denaro, che giunge insperato e benedetto a quattro quinti dei lavoratori, vuole dare ad ognuno quello che è necessario a mantenere la famiglia quel giorno, il pane quotidiano.

Il nostro Dio è differente, non è un padrone che fa di conto e dà a ciascuno il suo, ma un signore che dà a ciascuno il meglio, che estende a tutti il miglior dei contratti. Un Dio la cui prima legge è che l'uomo viva. Non è ingiusto verso i primi, è generoso verso gli ultimi. Dio non paga, dona.

È il Dio della bontà senza perché, che trasgredisce tutte le regole dell'economia, che sa ancora saziarci di sorprese, che ama in perdita. Anzi la nostra più bella speranza è un Dio che non sa far di conto: per lui i due spiccioli della vedova valgono più delle ricche offerte dei ricchi; per quelli come lui c'è più gioia nel dare che nel ricevere.

E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita: mette l'uomo prima del mercato, il mio bisogno prima dei miei meriti.

Quale vantaggio c'è, allora, a essere operai della prima ora? Solo un supplemento di fatica? Il vantaggio è quello di aver dato di più alla vita, di aver fatto fruttificare di più la terra, di aver reso più bella la vigna del mondo.

Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace che Tu sia buono, perché sono io l'ultimo bracciante. Non mi dispiace, perché so che verrai a cercarmi ancora, anche quando si sarà fatto molto tardi.

Io non ho bisogno di una paga, ma di grandi vigne da coltivare, grandi campi da seminare, e della promessa che una goccia di luce è nascosta anche nel cuore vivo del mio ultimo minuto.

padre Ermes Ronchi

L'unica misura del perdono è perdonare senza misura

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette», cioè sempre. L'unica misura del perdono è perdonare senza misura. Perché il Vangelo di Gesù non è spostare un po' più avanti i paletti della morale, ma è la lieta notizia che l'amore di Dio non ha misura. Perché devo perdonare? Perché cancellare i debiti? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio.

Gesù lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come il bilancio di una città: un debito insolvibile. «Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava..» e il re provò compassione. Il re non è il campione del diritto, ma della compassione. Sente come suo il dolore del servo, e sente che questo conta più dei suoi diritti. Il dolore pesa più dell'oro. E per noi subito s'apre l'alternativa: o acquisire un cuore regale o mantenere un cuore servile come quello del grande debitore perdonato che, "appena uscito", trovò un servo come lui.

"Appena uscito": non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un'ora dopo. "Appena uscito", ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia. Appena dopo aver fatto l'esperienza di come sia un cuore di re, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: "Dammi i miei centesimi"», lui perdonato di miliardi!

Eppure, questo servo "'malvagio" non esige nulla che non sia suo diritto: vuole essere pagato. È giusto e spietato, onesto e al tempo stesso crudele. Così anche noi: bravissimi a calare sul piatto tutti i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri. E passiamo nel mondo come predatori anziché come servitori della vita.

Giustizia umana è "dare a ciascuno il suo". Ma ecco che su questa linea dell'equivalenza, dell'equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell'eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura, profumo di nardo per trecento denari.

Quando non voglio perdonare (il perdono non è un istinto ma una decisione), quando di fronte a un'offesa riscuoto il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché annullare il debito, stringo un nuovo laccio, aggiungo una sbarra alla prigione.

Perdonare, invece, significa sciogliere questo nodo, significa lasciare andare, liberare dai tentacoli e dalle corde che ci annodano malignamente, credere nell'altro, guardare non al suo passato ma al suo futuro. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato, ma come un liberatore, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica.

padre Ermes Ronchi

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