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Quando Gesù si autoinvita alla nostra tavola

Gesù passando alzò lo sguardo. Zaccheo cerca di vedere Gesù e scopre di essere guardato. Il cercatore si accorge di essere cercato: Zaccheo, scendi, oggi devo fermarmi a casa tua. Il nome proprio, prima di tutto. La misericordia è tenerezza che chiama ognuno per nome. Non dice: Zaccheo, scendi e cambia vita; scendi e andiamo a pregare... Se avesse detto così, non sarebbe successo nulla: quelle parole Zaccheo le aveva già sentite da tutti i pii farisei della città. Zaccheo prima incontra, poi si converte. Da Gesù nessuna richiesta di confessare o espiare il peccato, come del resto non accade mai nel Vangelo; quello che Gesù dichiara è il suo bisogno di stare con lui: "devo venire a casa tua. Devo, lo desidero, ho bisogno di entrare nel tuo mondo. Non ti voglio portare nel mio mondo, come un qualsiasi predicatore fondamentalista; voglio entrare io nel tuo, parlare con il tuo linguaggio piano e semplice". E non pone nessuna condizione all'incontro, perché la misericordia fa così: previene, anticipa, precede. Non pone nessuna clausola, apre sentieri, insegna respiri e orizzonti. È lo scandalo della misericordia incondizionata. Devo venire a casa tua. Ma poi non basta. Non solo a casa tua, ma alla tua tavola. La tavola che è il luogo dell'amicizia, dove si fa e di rifà la vita, dove ci si nutre gli uni degli altri, dove l'amicizia si rallegra di sguardi e si rafforza di intese; che stabilisce legami, unisce i commensali... Quelle tavole attorno alle quali Gesù riunisce i peccatori sono lo specchio e la frontiera avanzata del suo programma messianico. Dio alla mia tavola, come un familiare, intimo come una persona cara, un Dio alla portata di tutti. Ecco il metodo sconcertante di Gesù: cambia i peccatori mangiando con loro, cioè condividendo cibo e vita; non cala prediche dall'alto del pulpito, ma si ferma ad altezza di occhi, a millimetro di sguardi. Ammonisce senza averne l'aria, con la sorpresa dell'amicizia, che ripara le vite in frantumi. Zaccheo reagisce alla presenza di Gesù cambiando segno alla sua vita, facendo quello che il maestro non gli aveva neppure chiesto, facendo più di quello che la Legge imponeva: ecco qui, Signore, la metà dei miei beni per i poveri; e se ho rubato, restituisco quattro volte tanto. Qual è il motore di questa trasformazione? Lo sbalordimento per la misericordia, una impensata, immeritata, non richiesta misericordia; lo stupore per l'amicizia. Gesù non ha elencato gli errori di Zaccheo, non l'ha giudicato, non ha puntato il dito. Ha offerto se stesso in amicizia, gli ha dato credito, un credito totale e immeritato. Il peccatore si scopre amato. Amato senza meriti, senza un perché. Semplicemente amato. E allora rinasce.

padre Ermes Ronchi

L'«ego» del fariseo e il «cuore» del pubblicano

Due uomini vanno al tempio a pregare. Uno, ritto in piedi, prega ma come rivolto a se stesso: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, impuri...». Inizia con le parole giuste, l'avvio è biblico: metà dei Salmi sono di lode e ringraziamento. Ma mentre a parole si rivolge a Dio, il fariseo in realtà è centrato su se stesso, stregato da una parola di due sole lettere, che non si stanca di ripetere, io: io ringrazio, io non sono, io digiuno, io pago. Ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Pregare è dare del tu a Dio. Vivere e pregare percorrono la stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di un tu, un amore, un sogno o un Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero. «Io non sono come gli altri»: e il mondo gli appare come un covo di ladri, dediti alla rapina, al sesso, all'imbroglio. Una slogatura dell'anima: non si può pregare e disprezzare; non si può cantare il gregoriano in chiesa e fuori essere spietati. Non si può lodare Dio e demonizzare i suoi figli. Questa è la paralisi dell'anima. In questa parabola di battaglia, Gesù ha l'audacia di denunciare che la preghiera può separarci da Dio, può renderci "atei", mettendoci in relazione con un Dio che non esiste, che è solo una proiezione di noi stessi. Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci si sbaglia su tutto, sull'uomo, su noi stessi, sulla storia, sul mondo (Turoldo) Il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, ci insegna a non sbagliarci su Dio e su noi: fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». C'è una piccola parola che cambia tutto nella preghiera del pubblicano e la fa vera: «tu». Parola cardine del mondo: «Signore, tu abbi pietà». E mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che egli fa per Dio (io prego, pago, digiuno...), il pubblicano la costruisce attorno a quello che Dio fa per lui (tu hai pietà di me peccatore) e si crea il contatto: un io e un tu entrano in relazione, qualcosa va e viene tra il fondo del cuore e il fondo del cielo. Come un gemito che dice: «Sono un ladro, è vero, ma così non sto bene, così non sono contento. Vorrei tanto essere diverso, non ce la faccio, ma tu perdona e aiuta». «Tornò a casa sua giustificato». Il pubblicano è perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre - come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento - si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza, la sola forza che ripartorisce in noi la vita. 

padre Ermes Ronchi

La lezione di preghiera della vedova che non si arrende

Disse una parabola sulla necessità di pregare sempre. E a noi pare un obiettivo impossibile da raggiungere. Ma il pregare sempre non va confuso con il recitare preghiere senza interruzione, Gesù stesso l'ha detto: quando pregate non moltiplicate parole. Vale più un istante nell'intimità che mille salmi nella lontananza (Evagrio il Pontico). Perché pregare è come voler bene. Infatti c'è sempre tempo per voler bene: se ami qualcuno, lo ami sempre. Così è con Dio: «il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre» (S. Agostino).

Il Vangelo ci porta a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, forte e dignitosa, che non si arrende, fragile e indomita al tempo stesso. Ha subito ingiustizia e non abbassa la testa.

C'era un giudice corrotto. E una vedova si recava ogni giorno da lui e gli chiedeva: fammi giustizia contro il mio avversario!

Gesù lungo tutto il Vangelo ha una predilezione particolare per le donne sole, perché rappresentano l'intera categoria biblica dei senza difesa, vedove orfani forestieri, i difesi da Dio.

Una donna che non si lascia schiacciare ci rivela che la preghiera è un "no" gridato al "così vanno le cose", è come il primo vagito di una storia nuova che nasce. Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere. La preghiera è il respiro della fede. Come un canale aperto in cui scorre l'ossigeno dell'infinito, un riattaccare continuamente la terra al cielo. Come per due che si amano, il respiro del loro amore.

Forse tutti ci siamo qualche volta stancati di pregare. Le preghiere si alzavano in volo dal cuore come colombe dall'arca del diluvio, ma nessuna tornava indietro a portare una risposta. E mi sono chiesto, e mi hanno chiesto, tante volte: ma Dio esaudisce le nostre preghiere, si o no? La risposta di un grande credente, il martire Bonhoeffer è questa: «Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste bensì le sue promesse». E il Vangelo ne è pieno: non vi lascerò orfani, sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine del tempo.

Non si prega per cambiare la volontà di Dio, ma il cuore dell'uomo. Non si prega per ottenere, ma per essere trasformati. Contemplando il Signore veniamo trasformati in quella stessa immagine (cfr 2 Corinzi 3,18). Contemplare, trasforma. Uno diventa ciò che contempla con gli occhi del cuore. Uno diventa ciò che prega. Uno diventa ciò che ama.

Infatti, dicono i maestri dello spirito «Dio non può dare nulla di meno di se stesso, ma dandoci se stesso ci dà tutto» (Santa Caterina da Siena). Ottenere Dio da Dio, questo è il primo miracolo della preghiera. E sentire il suo respiro intrecciato per sempre con il mio respiro

 
padre Ermes Ronchi

Gesù ha «fretta» di guarire l'uomo

Gesù è in cammino. E come lungo ogni cammino, la lentezza favorisce gli incontri, l'attenzione trasforma ogni incontro in evento. Ed ecco che dieci lebbrosi, una comunità senza speranza, un nodo di dolore, all'improvviso si pone di traverso sulla strada dei dodici.

E Gesù appena li vede... notiamo: subito, senza aspettare un secondo di più, "appena li vede", prima ancora di sentire il loro lamento. Gesù ha l'ansia di guarire, il suo amore ha fretta, è amore preveniente, amore che anticipa, pastore che sfida il deserto per una pecora che non c'è più, padre che corre incontro mentre il figlio cammina...

Davanti al dolore dell'uomo, appaiono i tre verbi dell'agire di Cristo: vedere, fermarsi, toccare, anche se solo con la carezza della parola.

Davanti al dolore scatta come un'urgenza, una fretta di bene: non devono soffrire neanche un secondo di più. E mi ricorda un verso bellissimo di Ian Twardowski: affrettiamoci ad amare, le persone se ne vanno così presto! L'amore vero ha sempre fretta. È sempre in ritardo sulla fame di abbracci o di salute. Andate... E mentre andavano, furono purificati. Sono purificati non quando arrivano dai sacerdoti, ma mentre camminano. La guarigione comincia con il primo passo compiuto credendo alla parola di Gesù. La vita guarisce non perché raggiunge la meta, ma quando salpa, quando avvia processi e inizia percorsi.

Nove lebbrosi guariscono e non sappiamo più nulla di loro, probabilmente scompaiono dentro il vortice della loro inattesa felicità, sequestrati dagli abbracci ritrovati, ridiventati persone libere e normali.

Invece un samaritano, uno straniero, l'ultimo della fila, si vede guarito, si ferma, si gira, torna indietro, perché intuisce che la salute non viene dai sacerdoti, ma da Gesù; non dalla osservanza di regole e riti, ma dal contatto con la persona di quel rabbi. Non compie nessun gesto eclatante: torna, canta, lo stringe, dice un semplice grazie, ma contagia di gioia.

Ancora una volta il Vangelo propone un samaritano, uno straniero, un eretico come modello di fede: la tua fede ti ha salvato. La fede che salva non è una professione verbale, non si compone di formule ma di gesti pieni di cuore: il ritorno, il grido di gioia, l'abbraccio che stringe i piedi di Gesù.

Il centro della narrazione è la fede che salva. Tutti e dieci sono guariti. Tutti e dieci hanno creduto alla parola, si sono fidati e si sono messi in cammino. Ma uno solo è salvato. Altro è essere guariti, altro essere salvati. Nella guarigione si chiudono le piaghe, rinasce una pelle di primavera. Nella salvezza ritrovi la sorgente, tu entri in Dio e Dio entra in te, e fiorisce tutta intera la tua vita

padre Ermes Ronchi

Servi «inutili», che cioè non cercano il proprio utile

Gesù ha appena avanzato una proposta che ai discepoli pare una missione impossibile: quante volte devo perdonare? Fino a settanta volte sette. E sgorga spontanea la richiesta: accresci in noi la fede, o non ce la faremo mai. Una preghiera che Gesù non esaudisce, perché non tocca a Dio aggiungere fede, non può farlo: la fede è la libera risposta dell'uomo al corteggiamento di Dio.

E poi ne basta poca, meno di poca, per ottenere risultati impensabili: se aveste fede come un granello di senape, potrete dire a questo gelso sradicati...

Qui appare uno dei tratti tipici dei discorsi di Gesù: l'infinito rivelato dal piccolo. Gesù sceglie di parlare del mondo interiore e misterioso della fede usando le parole di tutti i giorni, rivela il volto di Dio e il venire del Regno scegliendo il registro delle briciole, del pizzico di lievito, della fogliolina di fico, del bambino in mezzo ai grandi. È la logica dell'Incarnazione che continua, quella di un Dio che da onnipotente si è fatto fragile, da eterno si è perduto dentro il fluire dei giorni.

La fede è rivelata dal più piccolo di tutti i semi e poi dalla visione grandiosa di foreste che volano verso i confini del mare. La fede è un niente che è tutto. Leggera e forte. Ha la forza di sradicare gelsi e la leggerezza di un minimo seme che si schiude nel silenzio. Ho visto il mare riempirsi di gelsi. Ho visto imprese che sembravano impossibili: madri e padri risorgere dopo drammi atroci, disabili con occhi luminosi come stelle, un missionario discepolo del Nazzareno salvare migliaia di bambini-soldato, una piccola suora albanese rompere i tabù millenari delle caste...

Un granello: non la fede sicura e spavalda ma quella che nella sua fragilità ha ancora più bisogno di Lui, che per la propria piccolezza ha ancora più fiducia nella sua forza. Il Vangelo termina con una piccola parabola sul rapporto tra padrone e servo, chiusa da tre parole spiazzanti: quando avete fatto tutto dite: siamo servi inutili. Capiamo bene, però: mai nel Vangelo è detto inutile il servizio, anzi è il nome nuovo della civiltà. Servi inutili non perché non servono a niente, ma, secondo la radice della parola, perché non cercano il proprio utile, non avanzano rivendicazioni o pretese. Loro gioia è servire la vita.

Servo è il nome che Gesù sceglie per sé; come lui sarò anch'io, perché questo è l'unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che pianta alberi di vita nel deserto e nel mare.

Inutili anche perché la forza che fa germogliare il seme non viene dalle mani del seminatore; l'energia che converte non sta nel predicatore, ma nella Parola. «Noi siamo i flauti, ma il soffio è tuo, Signore». (Rumi).

padre Ermes Ronchi

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