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La guarigione del sordomuto e la nostra liberazione

Il percorso tracciato da Marco è molto significativo: con una lunga deviazione Gesù sceglie un itinerario che congiunge città e territori estranei alla tradizione religiosa di Israele; percorre le frontiere della Galilea, alla ricerca di quella parte comune ad ogni uomo che viene prima di ogni frontiera, di ogni divisione politica, culturale, religiosa, razziale. Scrivo queste parole dalla Mongolia, da una piccola, giovanissima chiesa ad Arvaheer, dove risuonano vere; dove, nella fede sorgiva delle origini, senti che Gesù è davvero l'uomo senza confini, che lui è il volto alto e puro dell'uomo, e che per il cristiano ogni terra straniera è patria.

Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, vita a metà, ma "portato" da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene da colui che è Parola e liberazione, che parla come nessuno mai, che è l'uomo più libero passato sulla terra.

E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più di ciò che gli è chiesto, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare la umanità e l'eccedenza, la sovrabbondanza della risposta di Dio.

Allora Gesù lo prese in disparte, lontano dalla folla. In disparte, perché ora conta solo quell'uomo colpito dalla vita. Immagino Gesù e il sordomuto occhi negli occhi, che iniziano a comunicare così.

E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Secondo momento della comunicazione, il tocco delle dita, le mani parlano senza parole.

Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell'uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito.

Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore.

Gesù guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore, quasi soffiando l'alito della creazione: Apriti, come si apre una porta all'ospite, una finestra al sole.

Apriti dalle tue chiusure, libera la bellezza e le potenzialità che sono in te.

Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite

E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno.

Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l'uomo vivente» (sant'Ireneo), l'uomo tornato a pienezza di vita.

Padre Ermes Ronchi

Quel rischio di una fede dal «cuore lontano» piegata all'esteriorità

 

Gesù viveva le situazioni di frontiera della vita, incontrava le persone là dov'erano e attraversava con loro i territori della malattia e della sofferenza: dove giungeva, in villaggi o città o campagne, gli portavano i malati e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccavano venivano salvati (Mc 6,56). Da qui veniva Gesù, portando negli occhi il dolore dei corpi e delle anime, e insieme l'esultanza incontenibile dei guariti. Ora farisei e scribi lo provocano su delle piccolezze: mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti! Si capisce come la replica di Gesù sia decisa e insieme piena di sofferenza: Ipocriti! Voi avete il cuore lontano! Lontano da Dio e dall'uomo.

Il grande pericolo, per i credenti di ogni tempo, è di vivere una religione dal «cuore lontano», fatta di pratiche esteriori, di formule recitate solo con le labbra; di compiacersi dell'incenso, della musica, della bellezza delle liturgie, ma non soccorrere gli orfani e le vedove (Giacomo 1,27, II lettura).

Il pericolo del cuore di pietra, indurito, del «cuore lontano» da Dio e dai poveri è quello che Gesù più teme. «Il vero peccato per Gesù è innanzitutto il rifiuto di partecipare al dolore dell'altro» (J. B. Metz), e l'ipocrisia di un rapporto solo esteriore con Dio.

Lui propone il ritorno al cuore, per una religione dell'interiorità. Non c'è nulla fuori dall'uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, sono invece le cose che escono dal cuore dell'uomo...

Gesù scardina ogni pregiudizio circa il puro e l'impuro, quei pregiudizi così duri a morire. Ogni cosa è pura: il cielo, la terra, ogni cibo, il corpo dell'uomo e della donna. Come è scritto: «Dio vide e tutto era cosa buona».

Gesù benedice di nuovo le cose, compresa la sessualità umana, che noi associamo subito al concetto di purezza e impurità, e attribuisce al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.

Il messaggio festoso di Gesù, così attuale, è che il mondo è buono, che le cose tutte sono buone, che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che devi custodire invece con ogni cura il tuo cuore perché è la fonte della vita.

Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale, che lui chiama «tradizione di uomini». Libero e nuovo ritorni il Vangelo, liberante e rinnovatore.

Che respiro di libertà con Gesù! Apri il Vangelo ed è come una boccata d'aria fresca dentro l'afa pesante dei soliti, ovvii discorsi. Scorri il Vangelo e ti sfiora il tocco di una perenne freschezza, un vento creatore che ti rigenera, perché sei arrivato, sei ritornato al cuore felice della vita.

Padre Ermes Ronchi

Pellegrinaggio parrocchiale a La Verna

 

 

Riportiamo parte di un paio delle tante testimonianze di questa giornata veramente speciale che ci è servita per una elevazione spirituale.

Una bella domenica vissuta in allegria da 88 persone!

La giornata ci ha sorriso: il cielo era di un azzurro bellissimo e l'aria, freschina la mattina, si è poi riscaldata e ci ha permesso di godere nel migliore dei modi quanto offriva il luogo di preghiera. La Messa concelebrata con i frati francescani, è stata rallegrata dai canti e dalla musica degli stessi frati. 30 frati francescani custodiscono la Basilica e i luoghi dove San Francesco ha vissuto, ha pregato, ha ricevuto le grazie dal Signore.

Anche noi abbiamo pregato e cantato davanti alla Basilica ai piedi della Croce che si erge semplice e maestosa nello spazio antistante la chiesa, uniti nel ringraziamento per quanto il Signore sempre ci regala. Bella la processione dell'Ora Nona fino alla Cappella delle Stimmate: le voci dei francescani hanno reso alta e unita la preghiera per tutti i partecipanti.

Gli stretti e scoscesi percorsi di accesso alle grotte e ai luoghi dove San Francesco amava sostare, che lui raggiungeva calandosi con delle corde, fanno riflettere tanto: a lui bastava la natura quasi selvaggia, ma molto bella, per incontrare Dio e già lì trovare il Paradiso.

E noi?!'.....forse abbiamo portato a casa solo un “pensiero” di santità!

E' bello pensare che ognuno di noi si sia almeno proposto di lasciarsi raggiungere dalla Luce che toccò San Francesco.

Aspettiamo il prossimo pellegrinaggio con gioia.

Grazie ai nostro Sacerdoti […]


[…]

Quello che mi è rimasto molto impresso è il Sasso Spicco.

Scendendo le scale che portano al precipizio a piombo sotto la rupe, l'acqua gocciola eterna dalle rocce e un enorme masso nella parte inferiore è appoggiato di spigolo alle pareti divise della rupe. Sotto questo masso San Francesco sostava e pregava intensamente.

Tutto il Santuario è un luogo mistico, che ti fa riflettere, suggestivo, dove si capisce l'isolamento di Francesco e dove ha vissuto gli ultimi anni della sua vita.

Ti entra nell'anima, luogo di pace, spiritualità e raccoglimento e tante altre cose, come le terrecotte invetriate di Andrea Della Robbia, il saio di San Francesco, la cappella di Sant'Antonio dove Francesco si ritirò in preghiera per 4 mesi, il giaciglio di pietra sopra il quale riposava, insomma un luogo veramente magnifico.

Siamo rientrati veramente felici e speriamo di rincontrarci per altri pellegrinaggi, ringraziando i nostri Padri.

Possiamo diventare “parenti” di Gesù

Nella casa in cui si trova, Gesù è assediato dalla folla, che non lascia, a lui e agli apostoli, neppure il tempo di mangiare; tutti ricorrono a lui per essere guariti dalle loro malattie: detto nel linguaggio e secondo le convinzioni di allora, per essere liberati dal demonio. Ne approfittano i suoi nemici, per sostenere che lui stesso è posseduto dal demonio, e “scaccia i demoni per mezzo del capo dei demoni”. Gesù fa rilevare l'assurdità di queste accuse: “Come può satana scacciare satana? Se un regno è diviso in se stesso non potrà restare in piedi; se satana si ribella contro se stesso, è finito!” E aggiunge una frase di quelle “pesanti”, su cui riflettere seriamente. Dice: “Tutto sarà perdonato agli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno”. Bestemmiare contro lo Spirito significa ostinarsi a chiamare bene ciò che sappiamo essere male, e viceversa. Significa, in altri termini, negare ciò che la coscienza riconosce come giusto e vero. Chi persistesse in tale atteggiamento non potrebbe essere perdonato, non perché Dio non possa o non voglia farlo, ma perché l'uomo negherebbe anche la necessità e il desiderio di esserlo. Dio rispetta la libertà dell'uomo, e perciò non costringe nessuno ad accogliere i suoi doni. L'episodio narrato da Marco continua poi con un risvolto inatteso, che richiede anch'esso qualche chiarimento e offre un altro rilevantissimo motivo di riflessione. Gesù dunque è attorniato dalla folla, tanto che i nuovi arrivati non riescono ad avvicinarsi a lui, e qualcuno lo informa: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”. Il fatto che Gesù avesse fratelli e sorelle, e dunque sua madre, la sempre-vergine, abbia avuto figli oltre a lui, in passato è stato motivo di turbamento. In realtà non sarebbe stato il caso, se avessero considerato che i vangeli riflettono concetti e linguaggio di duemila anni fa e di una civiltà per tanti aspetti differente dalla nostra; scrivessero oggi, Matteo Marco Luca e Giovanni si esprimerebbero diversamente. Si è visto anche in questo stesso brano: chi allora era ritenuto posseduto dal demonio, oggi sarebbe detto semplicemente malato. E allora dicevano fratelli tutti i consanguinei, i parenti, gli appartenenti a uno stesso clan. È da notare piuttosto come risponde Gesù a chi gli segnala che i parenti lo cercano. Si chiede: “Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?” E guardandosi attorno, alla folla che lo assedia affidandosi a lui, dichiara: “Ecco mia madre, ecco i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
Questa risposta ha dato un dispiacere a qualche lettore dei vangeli, di quelli molto devoti verso la Madonna. Qualcuno l'ha intesa come uno sgarbo verso di lei, come se per lui non contasse, e l'ha associata alla risposta apparentemente brusca (“Donna, che vuoi da me?”) datale alle nozze di Cana. Forse che Gesù non volesse bene a sua madre? Assurdo, per mille ragioni che non è possibile esporre qui. È di maggiore rilevanza invece considerare quanto implicano le parole di Gesù: implicano l'affermazione che più importanti dei vincoli di sangue sono i vincoli elettivi, in particolare quelli derivanti da una stessa fede. E dunque, a tutti è possibile diventare “parente” di Gesù. La condizione è quella esposta: è una, è chiara. Essere cristiani significa cercare di tradurla nella propria vita.

mons. Roberto Brunelli

Festa della comunione, Dio dona se stesso

Nella cornice di una cena, la novità di Gesù: Dio non si propone più di governare l'uomo attraverso un codice di leggi esterne, ma di trasformare l'uomo immettendogli la sua stessa vita. La novità di un Dio che non spezza nessuno, spezza se stesso; non chiede sacrifici, sacrifica se stesso; non versa la sua ira, ma versa "sui molti" il proprio sangue, santuario della vita. In quella sera, cibo vita e festa sono uniti da un legame strettissimo. Spesso trasformiamo l'ultima Cena in un'anticipazione triste della passione che incombe, mentre Gesù fa esattamente il contrario: trasforma la cronaca di una morte annunciata in una festa, una celebrazione della vita. Quella cena prefigura la resurrezione, mostra il modo di agire di Dio: dentro la sofferenza e la morte, Dio suscita vita. E Gesù ha simboli e parole a indicare la sua morte ma soprattutto la sua infinita passione per la vita: questo è il mio corpo, prendete; e intende dire: vivetene! E mi sorprende ogni volta come una dichiarazione d'amore: "io voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell'intimo tuo come sangue, farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita".

Qui è il miracolo, il batticuore, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola. Lo dice benissimo Leone Magno: partecipare al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo. Con il suo corpo Gesù ci consegna la sua storia: mangiatoia, strade, lago, volti, il duro della Croce, il sepolcro vuoto e la vita che fioriva al suo passaggio. Con il suo sangue, ci comunica il rosso della passione, la fedeltà fino all'estremo. Vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l'esistenza umana come l'ha vissuta lui.

Corpo e sangue, donati: ogni volta che anche noi doniamo qualcosa, si squarciano i cieli. Corpo e sangue, presi: ogni volta che ne prendo e mangio è la mia piccola vita che si squarcia, si trasforma e sconfina per grazia. Festa della comunione: a riportare nel mondo questa verità, a riscoprire questo immenso vocabolo è stato Gesù. Senso definitivo del nostro andare e lottare, del nostro piangere e costruire, «fine supremo fissato da Cristo stesso a tutta l'umanità è il dono della comunione» (S. Bulgakov). Che si estende ad abbracciare tutto ciò che vive quaggiù sotto il sole, i nostri fratelli minori, le piccole creature, il filo d'erba, l'insetto con il suo misterioso servizio alla vita, in un rapporto non più alterato dal verbo prendere o possedere, ma illuminato dal più generoso dei verbi: donare.

Padre Ermes Ronchi

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