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Un granello di quiete

La nostra vita è come il mare di Galilea, a volte calmo e a volte in tempesta, ma le nostre instabili e piccole barche sono state costruite non per restare ancorate in porto, ma per prendere il largo.

Siamo tutti naviganti, non possiamo fare a meno di attraversare il lago.

“Passiamo all’altra riva” dice Gesù, e i discepoli accolgono il suo invito e si mettono in barca: e lo presero con sé, così com’era.

Gesù è talmente stanco che nella traversata si addormenta.

Improvvisa sul lago si scatena la tempesta. E Gesù dorme:, affidandosi ai suoi ragazzi, loro sì esperti di lago.

“Non ti importa che moriamo?”

La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti “minacciò il vento, parlò al mare, che assicurano a ciascuno: mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore.

E sono qui.

A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime.

La fede non è una assicurazione contro le burrasche della vita; le tempeste non si evitano e non si fuggono, si attraversano.

Perché avete così tanta paura?

Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.

Il Signore salva attraverso persone (R. Guardini).

Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza.

I discepoli vogliono un Dio che spazzi via le tempeste, e subito!

E invece Dio si fida di loro e li accompagna nel mezzo della burrasca. Non agisce al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.

Perché avete paura? Non avete ancora fede?

I discepoli hanno fede sì, ma nel Dio che risolve i problemi, che tappa i buchi della nostra fragilità, lui invece scava pozzi di coraggio e dignità.

Non avete fede? Credere nel miracolo non è vera fede; troppo facile, troppo comodo. Quanta gente ha più fede nei miracoli che in Dio! “No, credere a Pasqua non è vera fede. Troppo bello sei a Pasqua. Fede vera è al venerdì santo….” (D. M. Turoldo).

Fede è perseverare nella burrasca.

E dopo che ha fatto tutto ciò che poteva al cristiano si apre lo spazio di un di più, un qualcosa che Lui solo ha, una pace sul mare, il miracolo imprevisto, il vento che tace, lo scintillio della fiducia negli altri.

Il di più di Dio, che non sta in riva al lago ad osservare, ma è presente nel buio, come granello di luce nella notte, granello di quiete, di fiducia, di bonaccia.

Che inonda di pace perfino le nostre tempeste.

P. Ermes Ronchi

Nella natura della natura

Quante volte non troviamo le parole adatte per dire Dio!

E Gesù ci risponde con le parabole.

Lo fa con parole laiche, di casa, di orto, di lago, di strada, per raccontarci storie di vita.

Il vangelo di Marco riassume il suo insegnamento con immagini di contadini che si affaticano nell’arte di far nascere, fiorire, fruttificare.

Il contadino nel vangelo è l’anello mancante tra l’uomo e Dio, dove le parabole non sono solo semplici pretesti per insegnare teologia e morale.

Un albero, le foglioline del fico, il granello di senape diventano una continua rivelazione del divino (Laudato si’), una sillaba del suo messaggio.

Le cose del mondo non sono sante perché ricevono l’acqua benedetta, ma sono degne di riceverla perché già benedette, santificate, e noi camminiamo in mezzo a loro come dentro un santuario.

Ezechiele aveva parlato della tenerezza di un Dio giardiniere che pianta un cedro del Libano. Gesù va oltre: parla di un semino di senape con una novità tutta sua: sceglie una pianta mai nominata nel Primo Testamento, nonostante fosse di uso comune.

Gesù sceglie l’economia della piccolezza: mette la senape al posto del cedro del Libano; l’orto al posto del monte; parlerà di Dio con l’immagine di una chioccia con i suoi pulcini: è il linguaggio teologico portato al registro più umile, a sovvertire le gerarchie.

Gli ascoltatori di Gesù saranno rimasti sconvolti all’idea che il Regno di Dio ha inizi così piccoli, ma Gesù si concentra sulla crescita dal minuscolo al grande, dai più piccoli germogli, alla maturazione in pienezza.

Le sue parole contengono anche un appello alla meraviglia: il Regno diventa un mistero davanti al quale stupirsi.

Prendere sul serio l’economia della piccolezza ci fa guardare il mondo in un altro modo. Ci fa cercare i re di domani tra gli scartati di oggi, ci fa prendere sul serio i giovani e i bambini, e trovare meriti là dove l’economia della grandezza vede solo demeriti.

Il vangelo della terra di Gesù sovverte le norme, perché le leggi che reggono il venire del Regno di Dio e quelle che alimentano la vita naturale sono in fondo le stesse. Spirito e realtà si abbracciano. Il terreno produce da sé, per energia e armonia proprie: è nella natura della natura essere dono e crescita. È nella natura di Dio essere eccedenza gratuita. E anche in quella dell’uomo. Dio agisce in modo positivo, fiducioso, solare; e non per sottrazione, ma sempre per addizione, per aggiunta e incremento, con incrollabile fiducia nei germogli. Dalle sue parabole sboccia una visione profetica del mondo: la nostra storia è tutto un seminare, germinare, spuntare, accestire, maturare: tutto è fiducia incamminata.

P. Ermes Ronchi

Molta folla, molta solitudine

Da sud, arriva per il giovane rabbi una commissione d’inchiesta, con i primi teologi dell’istituzione religiosa pronti ad accusarlo.

Dal nord scendono invece i suoi, per riportarselo a casa.

Sembra una manovra a tenaglia contro quel maestro fuori legge.

Non s’è mai visto in Israele un rabbino che cammina sempre, sempre in giro, con la strada come casa e aula scolastica, seguito da una carovana colorata di uomini e donne.

I dottori della legge arrivano a Cafarnao da Sud e da Ovest, per metterlo in riga, lui che ha fatto di dodici ragazzi il suo esercito, di una parola che guarisce, la sua arma.

E sentenziano che Gesù è figlio del diavolo, marchiato di scomunica.

Eppure la pedagogia del maestro incanta sempre: invece di offendersi, come avrei fatto io, dice Marco “ ma egli li chiamò”, chiama vicino quelli che l’hanno giudicato da lontano, e parla con loro. Gesù ha dei nemici, ma non è nemico di nessuno. Lui è l’amico della vita.

Sua madre e i suoi fratelli, da fuori mandarono a chiamarlo.

Il vangelo di Marco, concreto e asciutto, ci rimette con i piedi per terra, dopo le ultime grandi feste che ci hanno fatto volare alto.

Si riparte dalla casa, dal basso, dai problemi: il Vangelo non nasconde che durante il suo ministero pubblico le relazioni di Gesù con la madre e la famiglia siano segnate da contrasti e distanza.

E alla loro chiamata Gesù risponde, ma solo a quelli seduti attorno a lui: Chi sono i miei fratelli e le mie sorelle? Quelli la fuori? Che si vergognano di me? Del matto di casa?

Particolare drammatico, sembra una canzonatura: c’è tua madre!

E io credo che qui Marco riferisca uno dei momenti più dolorosi della vita di Maria, che si sente dire dal figlio: chi è mia madre?

Un disconoscimento. L’unica volta che Maria appare nel vangelo di Marco è qui (e non ne riporta il nome se non in una menzione indiretta nelle parole dei nazareni: “non è costui il figlio di Maria?”), ed è l’immagine di una madre e di un figlio distanti, ognuno immerso nel proprio dolore.

Anche Maria, come noi, ha dovuto cercare e faticare, affrontare dubbi e parole dure.

Chi fa la volontà del Padre, questi è per me madre, sorella, fratello.

La volontà del Padre è semplice: vuole che sorga un mondo fatto di coraggio, libertà e amore, di fratelli tutti.

Assediato, Gesù non si arrende, si oppone a ciò che è mediocre! Non si ferma, non torna indietro. Lo immagino: molta folla e molta solitudine.

Ma dove passa lui, fiorisce un sogno di maternità, sorellanza e fraternità nel quale ci invita a entrare. Un sogno che forse abbiamo spezzato mille volte, ma di cui non ci è concesso stancarci.

P. Ermes Ronchi

Puro silenzio

Oggi, Corpus Domini, non è la festa dei tabernacoli aperti o degli ostensori dorati da venerare.

Che cosa celebriamo? Cristo che si dona? Neppure questo è sufficiente. La festa di oggi è ancora un passo avanti.

Io che faccio la comunione? Non basta.

E’ Lui che viene a fare comunione con noi. E’ Lui in cammino.

Lui che percorre i cieli, Lui felice di vedermi, Lui che non chiede agli apostoli e a me di venerare quel Pane, ma dice molto di più: ‘io voglio stare nelle tue mani come dono, e nella tua bocca come pane, sangue, cellula, pensiero di te.

Tua vita. Vuole perdersi dentro noi come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo.

La prima parola è: prendete. Gesù parla sempre con verbi poveri, semplici, diretti: prendete, ascoltate, venite, andate, partite; “corpo e sangue”. Ignote quelle mezze parole ambigue che permettono ai potenti o ai furbi di consolidare il loro predominio.

Gesù è così radicalmente uomo, anche nel linguaggio, da raggiungere Dio e da comunicarlo attraverso le radici, attraverso gesti comuni a tutti.

Prendete. Qui è il miracolo, il batticuore, lo scopo: per essere trasformati. Quello che sconvolge, è ciò che accade nel discepolo più ancora di ciò che accade nel pane.

Allora mangiare e bere Cristo è molto più che fare la comunione, è “farci comunione”. Che Leone Magno sintetizza così: prendere il corpo e il sangue di Cristo tende a trasformarci in ciò che riceviamo.

Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola.

A che serve un Dio come pane chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso?

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue “ha” la vita eterna. Adesso! Non “avrà”, come una specie di futuro tfr.

La vita eterna è già qui, libera e autentica, e fa cose che meritano di non morire, con Gesù che dice: prendete il mio corpo, tutta la mia umanità, il mio modo di piangere e ridere, di sedermi alla tavola di Zaccheo, di Levi, e a casa tua.

Ma noi di cosa nutriamo anima e pensieri? Di generosità, bellezza, profondità?

O ci saziamo di intolleranze, miopie dello spirito, paure di tutto?

Se accogliamo pensieri degradati, ci faranno come loro; se accogliamo pensieri di vangelo, ci faranno creature di bellezza.

Alla Messa ecco per noi un piccolo pane bianco che non ha sapore, che è puro e profondissimo silenzio. Dono lieve come un’ala.

Ma accade qualcosa che i padri orientali chiamano deificazione (theosis), parola che fa tremare. Un pezzo di Dio in me perché io diventi un pezzetto di Dio nel mondo.

Finita la religione dei riti e degli obblighi, ecco la religione del corpo a corpo con Dio, la religione del tu per tu con Lui, che prima che io dica: “ho fame”, mi dice: “Prendete e mangiate”.

Mi ha cercato, mi ha atteso e si dona, e io posso solo accoglierlo e ringraziare. 

 P. Ermes Ronchi

Sulla soglia della vita

Ci sono andati tutti all’appuntamento sul monte di Galilea.

Tutti, anche quelli che dubitavano ancora, tutta la comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, la fuga e perfino il suicidio di uno di loro…

Ma il maestro non li molla, e compie uno dei suoi gesti più tipici: si avvicinò. Si fa più vicino…

Sono 40 giorni che parla del Regno e loro ancora non capiscono, eppure Gesù non si stanca di avvicinarsi e spiegare.

È Dio che bussa alla porta dell’umano, e la porta dell’umano è il cuore. E se io non apro, “lui alla porta mi lascia un fiore” (Turoldo). So che tornerà, perché non dubita di me. Loro sì, dubitano, anche di se stessi. Ma i dubbi non hanno mai raffreddato il cuore di Dio.

L’ultima, la suprema pedagogia di Gesù è così semplice: “avvicinarsi sempre, confortare e incalzare”, sussurrare al cuore, e soprattutto stare insieme a loro: io sono con voi, tutti i giorni, anche davanti alle porte chiuse, quando ti ingoia la notte e quando ti pare di volare. E poi l’invio: andate in tutto il mondo e annunciate.

Affida la fede e la parola di vita a discepoli che hanno un peso sul cuore, eppure: andate e battezzate, immergete ogni vita nell’oceano di vita.

Fatelo “nel nome del Padre”: amore in ogni amore; “nel nome del Figlio”: il più bello tra i nati di donna; “nel nome dello Spirito”: vento che ci fa tutti vento nel suo Vento.

I nomi che Gesù sceglie per dire la Trinità sono nomi di famiglia, di affetto, nomi che abbracciano. Perché Dio non è solitudine ma abbraccio, attrazione, incontro, connessione.

Come tutti i dogmi, anche quello della Trinità non è un freddo distillato di concetti, ma contiene la sapienza del vivere, la sapienza ultima sulla vita e sulla morte. Ed è questa: in principio a tutto, nell’infinito del cosmo e nel minimo del cuore, in cielo come sulla terra, sta una comunione; all’origine, un legame.

La Trinità è Dio che genera e presiede a ogni nascita. Infatti l’essere umano non è creato solo a immagine del Padre, ma anche a immagine del Figlio, volto alto e puro dell’uomo; e a immagine dello Spirito, respiro al primo Adamo.

Non siamo semplicemente a somiglianza di Dio, ma di più, a immagine e somiglianza della Trinità, sapienza del vivere e del generare.

Allora posso finalmente capire perché sto bene quando sono con chi mi vuole bene; posso capire perché sto male quando sono isolato e senza legami: è la mia natura profonda che si esprime, è la nostra divina origine che reclama e domanda di respirare, di ritornare intera, nell’abbraccio: “ci si abbraccia per ritornare interi” (A. Merini).

Io sono con voi fino alla fine. Non dimentichiamo mai questa frase, non lasciamola avvizzire. Sarò con voi, senza condizioni e senza clausole, dentro le solitudini e dentro l’amore, nel dolore e nella felicità, a fare storia nella vostra storia. Per questo il vangelo è affidato a undici pescatori illetterati, che non hanno capito molto di Gesù, ma lo hanno molto amato. Piccoli su quel monte, ma abbracciati, dentro un calore, un respiro, un vento in cui naviga, senza più ansia alcuna, l’intero creato.

P. Ermes Ronchi

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