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Stigma di Dio sono due spiccioli


Nel gesto discreto di lei, Gesù ci dà una lezione fondamentale: non cercate nella vita persone sante. Forse le troverete o forse no (infatti non sappiamo nulla della vita morale di quella donna). Cercate piuttosto persone generose. La generosità è lo stigma di Dio. L'ultimo personaggio che Gesù incontra nel vangelo di Marco è una donna senza nome, una maestra senza parole e senza titoli, ma che conosce la sapienza del vivere. Gesù, seduto, osserva. Il suo guardo penetrante, affilato come quello dei profeti, nota in quella vedova povera un gesto da nulla, in cui si cela il divino, vede l'assoluto balenare nel dettaglio di due centesimi. Lei ha gettato due spiccioli, ma ha dato più di tutti gli altri. Perché di più di tutti? Perché le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Conta quanto cuore c'è dentro, quanto peso di lacrime e quanta fede. Ha gettato tutto ciò che le serviva per vivere. Chi dà tutto, non si meraviglia, poi, di ricevere tutto.Per quella donna, le parole originarie che Marco spende sono geniali: gettò nel tesoro tutta intera la sua vita
Quella donna ha immesso nel mondo il meglio che aveva: il suo molto coraggio, contenente una scheggia di divino.
Nel gesto discreto di lei, Gesù ci lascia una lezione fondamentale: non cercate nella vita persone sante. Forse le troverete o forse no (infatti non sappiamo nulla della vita morale di quella donna). Cercate piuttosto persone generose. La generosità è lo stigma di Dio. Affidiamo la nostra vita ai generosi, andiamo a scuola da loro, e non dagli scribi pii e devoti.
Vangelo dalla domanda radicale: Che cosa ci fa vivere? Dalla risposta semplice: il dono! Nel vangelo il verbo "amare" si traduce sempre con un altro verbo, concreto, asciutto, di mani: "dare". Non un fatto di emozioni ma di doni.
Architrave portante della religione è il dono, e non il dovere o i debiti da pagare.
"Io credo nello Spirito è Signore e dà la vita". Dio dona. Dona respiro al mio respiro, dona agli uccelli di volare, alla rosa di fiorire, alle mamme l'abbraccio che guarisce, alla vita di risorgere, a una piccola donna povera di valere molto più degli istruiti, più ancora dei più ricchi. "Se tu ascoltassi per un'ora soltanto il tuo cuore, faresti lezione agli eruditi!" (Rumi).
Questa donna l'ha fatto, ha ascoltato il cuore e ha dato più di tutti. La domanda dell'ultima sera risuonerà forse come eco di questo piccolo evento: che cosa hai dato alla vita? Hai dato molto o poco alle vite che ti erano affidate? Hai dato generosamente quello che avevi: tempo, affetti, luce, i motivi che ti fanno vivere, gioire e, qualche volta almeno, tentare un passo di danza nel sole, e perfino nella pioggia?
I primi posti non appartengono agli scribi esperti di religione, ma a quelli che danno ciò che li fa vivere, che regalano cuore con gesti piccoli o grandi di cura, attenzione, gentilezza. L'infinito confina con una carezza, l'assoluto con due spiccioli poveri,
la notte comincia con la prima stella, l'amore con il primo sguardo, il mondo nuovo con il piccolo gesto di una vedova senza nome.

P. Ermes Ronchi

I due cuori

Qual è, fra tutti, il più grande comandamento?

Aiutaci a ritornare al semplice, al principio di tutto... Gesù lo fa, uscendo dagli schemi con una risposta che tra i comandamenti non c’è. Che bella la libertà, l’intelligenza anti conformista di Gesù, icona limpidissima della libertà e dell’immaginazione.

La risposta comincia con un verbo: tu amerai, al futuro, a indicare una storia in-finita, perché l’amore è il futuro del mondo, perché senza amore non c’è futuro per l’umanità.

Prima però del “più grande” Gesù evoca un ‘comandamento zero’: shemà, ascolta, ricordati, non dimenticare, tienilo legato al polso, mettilo come sigillo sul cuore, come gioiello davanti agli occhi... Fa tenerezza un Dio che chiede: “Ascoltami, per favore”. Ascoltare è amare.

Amerai con tutto il cuore; non da sottomesso, ma da innamorato. Qualcuno ha proposto un’altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e con il cuore d’ombra, amalo con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; come puoi, come riesci, magari col fiatone, quando splende il sole e quando si fa buio, e a occhi chiusi quando hai un po’ paura, anche con le lacrime. Santa Teresa d’Avila in una visione riceve questa confidenza dal Signore: “Per un tuo ‘ti amo’ rifarei da capo l’universo”.

Con tutta la tua mente. Amore intelligente deve essere; che vuole conoscerlo, studiarlo, capirlo di più. Parlare e cantare e scrivere di lui, una preghiera, una canzone, una poesia d’amore al tuo amore...

In fondo, nulla di nuovo. Le stesse parole le ripetono i mistici di tutte le religioni, i cercatori di Dio di tutte le fedi, da millenni.

P. Ermes Ronchi

Le ali di Bartimeo

Sulla strada da Gerico a Gerusalemme un uomo a terra, un mantello a coprire gli stracci.

Un mendicante cieco: cosa c’è di più perduto, di più naufrago della vita? Sfila gente, passa un corteo, c’è animazione nuova nell’aria: “sentendo che era Gesù il Nazareno che passava” Bartimeo è come attraversato da una scossa: alza la testa, si rianima, comincia a gridare il suo dolore. Non si vergogna di essere il più povero di tutti, anzi è la sua forza. La mendicanza è la sorgente della preghiera: “Kyrie eleison”, grida.

Tra tutte, la preghiera più cristiana ed evangelica, la più antica e la più umana. Che nelle nostre liturgie abbiamo confinato all’atto penitenziale, mentre è la richiesta di nascere di nuovo. La ripetono lebbrosi, donne, ciechi e non è richiesta di perdono per i peccati, ma di luce per gli occhi spenti, di una pelle nuova che possa ricevere carezze ancora. Come un bambino che grida alla madre lontana, chiedono a Dio: mostrati padre, sentiti madre di questo figlio naufrago, fammi nascere di nuovo, ridammi alla luce! 

Bartimeo cerca un Dio che si intrecci con la sua vita, con i suoi stracci.

Ma la folla attorno fa barriera al suo grido: taci! Disturbi!

Terribile pensare che la sofferenza possa disturbare. Disturbare Dio!

Bartimeo allora fa l’unica cosa che si può fare in questi casi: grida più forte. È il suo combattimento, con il buio degli occhi ciechi e con il muro della folla.

Gesù sente, ascolta il grido e risponde, ma in modo inatteso, coinvolgendo la folla che prima voleva zittire il mendicante: chiamatelo!

E la folla va, portavoce di Cristo, e si rivolge al cieco con parole bellissime, da brivido, dove è custodito il cuore dell’annuncio evangelico. Parole facili e che vanno diritte al cuore, da imparare, da ripetere, sempre, a tutti: “coraggio, alzati, ti chiama”.

Coraggio, la virtù degli inizi.

Alzati, dipende da te, lo puoi fare. Ricomincia, riprendi in mano la tua vita.

Ti chiama, è qui per te, non sei solo, il cielo non è muto e non sarà più buio!

E si libera un’energia a lungo compressa, che lo fa fiorire in gesti quasi eccessivi: non parla, grida; non si toglie il mantello, lo getta; non si alza da terra, ma balza in piedi. Guarisce in quella voce che lo accarezza, lo chiama, come un polline di suono che vibra nell’aria, un sentiero su cui può incamminarsi.

E solo a questo punto Gesù gli chiede cosa desidera veramente. Signore, che io veda! Vedere? Certo non i paesaggi di Palestina, forse il volto di sua madre o la luce degli occhi di un amico; non il suo ciglio di strada, piuttosto tutta la strada intera, su fino a Gerusalemme. E la prima cosa che vede è Gesù, un Dio che si accorge di lui, lo chiama, lo cerca, lo attira, lo libera. Quando dal ciglio della strada ci siamo alzati, quando anche noi ci siamo buttati in volo verso quella Parola, si sono aperte strade di luce, sotto ali che non sapevamo di avere.

P. Ermes Ronchi

Anche nel poco, anche imperfetto

Ma chi sono questi uomini che si sono alzati e si sono messi in cammino dietro a Gesù? Non sono eroi, sono uomini complicati, alcuni perfino imbarazzanti, proprio come me.

Due di loro sono così irruenti e rumorosi che Gesù ha confezionato per loro un soprannome forte e bello: “figli del tuono”. Un complimento. Gesù era grande nel lodare!

I due fratelli si avvicinano: Cosa volete che io faccia per voi? Lo chiederà anche al cieco di Gerico, lui non cerca potere, vuole la luce: che io veda! Siamo tutti un po’ come Bartimeo, mendicanti di luce appesi a qualcuno che ci guardi e ci paghi una piccola moneta.

I due fratelli invece non chiedono luce, ma potere: facci sedere una a destra e uno a sinistra del tuo trono. In questa richiesta riconosco la più diffusa di tutte le nostre umane preghiere, quando invochiamo di essere esauditi in ciò che paure, fragilità o passioni generano nell’intimo: volontà di prendere, salire, comandare. Tre verbi che fanno male. Perciò tre verbi maledetti.

Ci sono anche domande benedette, che nascono da fame di luce e di gioia, da amore che manca come il pane, da verbi benedetti, come dare, scendere, servire.

Ma neppure questo basta, perché non si prega per ottenere, ma per essere trasformati. Come suggerisce David Maria Turoldo: Io non sono ancora e mai il Cristo, ma sono questa infinita possibilità.

Non si prega per aggrapparci, ma per stupirci.

Dopo tre anni di strade, di malati guariti, di pane che traboccava dalle mani e dalle ceste, dopo tre annunci di morte in croce, è come se i discepoli non avessero ancora capito niente.

E Gesù, l’incredibile Gesù, invece di scoraggiarsi, riprende a spiegare ancora una volta il suo sogno di cieli nuovi e terra nuova.

Va bene, a patto che sappiate fare quello che io farò:

potete bere il mio stesso calice?
Come no, certo che possiamo!
E infatti, sotto la croce non c’era né l’uno né l’altro dei due fratelli.

E Gesù li chiama a sé di nuovo, consegna loro la chiave di volta del mondo in pace, in una espressione bellissima, ribadita con forza per tre volte: tra voi non sia così. Non così tra voi!

Nel mondo vincono i più forti, i più furbi, i più ricchi; tra voi non è così; nel mondo hanno ragione i potenti, gli intelligenti, i più numerosi, tra voi non è così. Voi siete nel mondo ma non del mondo, non omologatevi al pensiero dominante.

“I grandi del mondo si costruiscono imperi con il dominio e la forza. Non così in Dio”. Lui non ha troni, si cinge un asciugamano, s’inginocchia davanti a ciascuno, il suo impero è quel poco di spazio che basta a lavare i tuoi piedi.

Da lì, dal basso cerca gli occhi d’ogni figlio, cerca le mie ferite per fasciarle con bende di luce.

Essere sopra l’altro è la massima distanza possibile dall’altro. Dio invece si pone alla massima vicinanza: ai tuoi piedi.

P. Ermes Ronchi

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato.

Il vangelo si apre con una corsa verso Gesù: un tale gli corse incontro. Come chi ha fretta, chi è in ritardo e ha fame. E non sa che sta per affrontare un grande rischio: interroga Gesù per sapere la verità su se stesso, e non sarà capace di sopportarla.

Grande rischio, ma anche grande fortuna, se qualcuno scoperchia il pozzo della nostra vita e ci mostra chi siamo davvero.

Maestro buono, è vita o no, la mia? Domanda grandiosa. Tutta la bibbia ruota attorno a questo: sapere cosa è vita e cosa no.

È un appassionato, questo giovane, è uno convinto, ci crede. E incanta Gesù, quando risponde: ‘tutto questo che dici l'ho sempre osservato. Ma non mi ha riempito la vita'. Vive quella beatitudine che conosciamo tutti, dolce e amara, ma generativa: “Beati gli insoddisfatti, gli inquieti, perché diventeranno cercatori di tesori”.

Ora il giovane fa un'esperienza da brivido, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro: Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. Per Gesù guardare e amare sono la stessa cosa. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso subisce l'incantamento del Signore, non resiste a quegli occhi. Invece la conclusione del racconto va nella direzione che non ti aspetti: “Una cosa ti manca, va', vendi, dona ai poveri...”

Come i veri maestri Gesù risponde alzando l'asticella, creando visioni nuove, donando ali perché quel ragazzo possa volare più alto e più lontano. Vuoi vivere davvero? Sappi che la tua vita non è garantita dal tuo patrimonio economico, ma dal tuo patrimonio relazionale.

E poi vieni con me: mettiamo in tavola la vita. E lo facciamo per amore dei poveri, non della povertà. L'ideale del maestro di Nazaret non è un pauperismo che basta a se stesso, ma riempire di volti e di nomi il cuore di ognuno. Prima le persone, dopo le cose.

Nel vangelo offre due sole regole circa i beni materiali, semplicissime e rivoluzionarie. Primo, non accumulare. Secondo, quello che hai è per condividere. Quanto basta a capovolgere la direzione della vita.

Le bilance della felicità pesano sui loro piatti la valuta più pregiata dell'esistenza: dare e ricevere segni d'amore. Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Infatti il vangelo continua: Pietro allora prese a dirgli: Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio cento volte tanto, avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato. Il vangelo non è rinuncia, se non della zavorra che impedisce il volo, la bella notizia è una addizione di vita. Chi prova a farlo, solo per frammenti certo, può dire: 

“con gli occhi nel sole/ a ogni alba io so/ che rinunciare per te/ è uguale a fiorire” (M. Marcolini).

P. Ermes Ronchi

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