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Il faccia a faccia della cura


Tutto inizia da un fatto: tu sei amato (come il Padre ha amato, così io ho amato), da cui consegue un altro fatto: ogni essere vivente respira non soltanto aria, ma amore e comunità (rimanete nel mio amore).

Se questo respiro cessa, non vive; e tutto converge verso una meta dolce e amica: questo vi ho detto perché la gioia vostra sia piena, perché giunga al colmo.

L’amore è un nome che brucia su tutte le labbra, e la gioia è un attimo immenso. Ma Gesù indica le condizioni per dimorarvi: osservate i miei comandamenti.

Roba grossa. Questione che riempie o svuota la vita.

L’amore è da prendere sul serio, ne va della nostra gioia.

Anzi, ognuno di noi vi sta giocando, consapevole o no, la partita della propria eternità. Io però faccio fatica a seguirlo: l’amore è sempre così poco, così a rischio, così fragile. Faccio fatica perfino a capire in cosa consista l’amore vero, dove si mescola tutto: passione, tenerezza, lacrime, paure, sorrisi, sogni e impegno concreto.

L’amore è sempre meravigliosamente complicato e sempre imperfetto, cioè incompiuto.

Sempre artigianale, e come ogni lavoro artigianale chiede mani, tempo, cura, regole: se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore.

Ma come, Signore, chiudi dentro i comandamenti l’unica cosa che non si può comandare, l’amore?

Mi scoraggi: il comandamento è regola, costrizione, sanzione. Un guinzaglio che mi strattona. L’amore invece è libertà, creatività. E’ divina follia!

Gesù non chiede semplicemente di amare, no! Non gli basta.

Ci sono anche amori violenti e disperati, amori tossici, e lui vuole di più: amatevi gli uni gli altri in reciprocità, in un faccia a faccia che si prende cura dell’altro. Non si ama l’umanità in generale, si amano le persone singolarmente, ad una ad una.

E poi scrive la parola che fa la differenza: amatevi come io vi ho amato.

Lo specifico del cristiano non è amare, questo lo fanno in tanti e in tanti modi. Ma è amare come Cristo, che cinge un asciugamano e lava i piedi di chi ama, cioè tutti.

Che non manda via nessuno; che se lo ferisco, mi guarda e mi ama. Come lui si è fatto canale dell’amore del Padre, così ognuno si farà canale libero perché l’amore circoli nel corpo del mondo.

Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, e la prima cosa a morire è la gioia.

Chi ti ama davvero?

Non certo chi ti riempie di coccole. L’amore vero è quello che ti spinge, ti incalza, ti obbliga a diventare tanto, infinitamente tanto, a diventare il meglio di te (Rainer Maria Rilke). Così ai figli non servono cose, ma padri e madri che diano orizzonti e grandi ali, per diventare il meglio di ciò che possono diventare.

Parola di Vangelo: se ami, non sbagli. Se ami, non fallirai la vita.

Se ami, la tua vita è stata un successo, comunque.

P. Ermes Ronchi

La piantagione preferita

Ci  porta a scuola in un vigneto, a lezione dalla sapienza della vite e da un Dio contadino, profumato di sole e di terra.

All’inizio della primavera mio padre mi portava nella vigna dietro casa. Sui tralci potati affiorava, in punta, una goccia di linfa che tremava e luccicava al vento di marzo. E mi diceva: guarda, è la vite che va in amore!

C’è un amore che muove il sole e le altre stelle, che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, e l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

Dobbiamo salvare la linfa di Dio, il cromosoma divino in noi.

Che Dio sia descritto come creatore non ci sorprende, l’abbiamo sentito. Ma Gesù afferma oggi una cosa mai udita prima: io sono la vite, voi i tralci. Io e voi la stessa cosa! Stesso tronco, stessa vita, unica radice, una sola linfa.

E mentre nei profeti antichi Dio appariva piantatore, coltivatore, vendemmiatore, ma sempre altro rispetto alle viti, oggi ascoltiamo una parola inaudita: Dio e io siamo la stessa vite; lui tronco, io tralcio; lui mare, io onda; lui fuoco, io fiamma. Il creatore si è fatto creatura. Dio è in me, non come padrone, ma come linfa vitale. E’ in me, per meglio prendersi cura di me.

Rimanete in me e io in voi. Non è da conquistare l’unione con Dio, è cosa di cui prendere consapevolezza: siamo già in Dio, ci avvolge con il suo affetto, lo respiri, lo urti! E Dio è in noi, è qui, è dentro, scorre nelle vene della vita. Dio che vivi in me, nonostante tutte le distrazioni e i miei inverni, e tutte le forze che ci trascinano via. Ma via da lui non c’è niente.

Questa comunione precede ogni liturgia, è energia che sale, cromosoma divino che scorre in noi.

Ed ogni tralcio che porta frutto, egli lo pota perché porti più frutto.

Il grande e coraggioso dono della potatura! Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, ogni contadino lo sa. Togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.

Il filo d’oro che cuce il brano e illumina ogni dettaglio è “frutto”. Sei volte viene ribadito; ribadisce, perché sia ben chiaro: il vangelo sogna mani di vendemmia e non mani perfette, magari pulite ma vuote, che non si sono volute mischiare con la materia incandescente e macchiante della vita.

Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione ma nella fecondità. Dov’è mai questa perfezione nei discepoli di Gesù, pronti alla fuga e alla bugia, duri a capire…

La morale evangelica ha la colonna sonora delle canzoni della vendemmia, di una festa sull’aia; sogna fecondità e non osservanze. Più generosità, più pace, più coraggio.

E mi piace tanto il Dio di Gesù, che si affatica attorno a me perché io porti frutto, che non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.

P. Ermes Ronchi

Disarmato amore

Io  sono il pastore buono: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro lupi e predatori.

In che cosa consiste la sua bontà? Nell’essere pastore mite, gentile, paziente, delicato? No, per ben 5 volte il vangelo oggi lo spiega con il gesto di dare, offrire, donare, porre in gioco la propria vita.

Il lavoro di Dio è offrire vita, alimentare la vita del gregge. Un Dio pastore che non chiede, ma offre; che non prende niente e dona tutto; non toglie vita, offre la sua anche a coloro che gliela tolgono. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre. Non un comando ma “il” comando, l’unico, l’essenziale.

Io sono il pastore bello, dice il testo originario. E noi capiamo che ‘bellezza’ è un nome di Dio; non estetica ma forza di seduzione; forza che crea ogni comunione.

«Il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore».

Al pecoraio salariato Gesù oppone parole che amo e che sorreggono la mia fede: “a me, pastore vero, le pecore importano, tutte, l’una e le novantanove”.

A ciascuno ripete: tu mi importi. Verbo bellissimo: importare, essere importanti per Dio!

Signore, non ti importa che moriamo? Gridano gli apostoli spaventati dalla tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Non temere!

Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma tu vali di più. Mi importano i gigli del campo ma tu conti più di tutti i gigli del mondo.

Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che ti oscura il cuore.

Per te do la mia vita. E non so domandare migliore avventura.

A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l’assenza di Dio, o turbati per il suo silenzio.

Il comandamento che impariamo dal pastore bello è che la vita è dono. “Dare vita” significa contagiare d’amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.

Se non dai vita attorno a te, entri nella malattia. Se non dai amore, un’ombra invecchia il cuore.

Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. E di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino, mi metto nelle sue mani e gli affido tutti gli agnellini del mondo.

Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi, pastori tutti di un pur minimo gregge, siamo chiamati a diventare racconto della tenerezza di Dio, della sua combattiva tenerezza.

P. Ermes Ronchi

E' Lui, ma non lo è. Non più come prima

Ma  tu da chi desideri essere toccato? Solo da chi ti vuole bene! L’incredulità degli apostoli si arrende al più umano dei bisogni: non agli angeli, non all’amicizia o alla teofania prodigiosa, ma ad una porzione di pesce arrostito.

Lo racconteranno come prova dell’incontro con il Risorto: noi abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41).

Mangiare è il segno della vita, e mangiare insieme è il segno eloquente di un legame perfetto, della comunione che tiene insieme le vite.

Quello struggente lamento – non sono un fantasma – arriva fino a me. Chi sei, Signore?

Un’emozione occasionale, un gioco d’ombre sul muro della vita, un mito, pur magnifico e necessario, un rito settimanale, poco più che un fantasma?

No, Cristo è il presente e il futuro della mia carne, concreto punto nella storia che si dilata e mi coinvolge.

Non è un fantasma, è pane e vino che bastano ai giorni. Vive in me, mi chiama, si dilata dentro, piange le mie lacrime e sorride come nessuno.

Talvolta vive al posto mio e cose più grandi di me mi accadono.

E si fa pace (pace a voi!) più grande di ogni mio diritto; e si fa intelligenza che io non ho conquistato (svelò loro il senso delle scritture e della vita); e si fa orizzonte e passi d’amico lungo il cammino.

Mi consola la fatica dei discepoli a credere, è la garanzia che non si tratta di un evento da loro inventato, ma di un fatto che li ha spiazzati.

Allora Gesù pronuncia, per sciogliere paure e dubbi, i verbi più semplici e familiari: “Guardate, toccate, mangiamo insieme! Non sono un fantasma”.

Mi tormenta questo lamento di Gesù, umanissimo e dichiarato: non sono un fiato nell’aria, un mantello di parole pieno di vento…

E senti il suo desiderio di essere abbracciato come l’amico che torna da lontano, e tutti i tradimenti sono spazzati via dall’umile richiesta di affetto.

Vorrei oggi ripartire, come i due di Emmaus, alla ricerca della carne di Cristo sparpagliata nella carne del mondo, scoprire come tutti i nostri volti uniti fanno il suo unico volto. Vicinissima a te è la sua carne; affidata a te. Quando capiremo che Dio abbraccia attraverso i nostri abbracci?

Le tue mani possono ancora toccarlo e accarezzarlo, nei fratelli e nelle creature tutte. E far tacere il suo lamento: non sono un fantasma, io ho carne e ossa, toccatemi!

E siatemi testimoni.

P. Ermes Ronchi

Venne Gesù a porte chiuse

La sua prima venuta sembra senza effetto, e otto giorni dopo tutto è come prima.

Eppure lui è di nuovo lì, ad aprire le porte della paura nonostante i cuori inaffidabili: venne Gesù e stette in mezzo a loro.

Secoli dopo è ancora qui, irremovibile davanti alle mie porte chiuse.

 La fede non è nata dal ricordo del Risorto. Il ricordo non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da una presenza, e non da una rievocazione: “e stette in mezzo a loro”.

Il Vangelo parla di ferite che Gesù non nasconde, che a Tommaso quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo! Il costato, puoi entrarci con la mano!

Piaghe che non ci saremmo aspettati, convinti che la risurrezione avrebbe rimarginato, cancellato per sempre il dolore del venerdì santo.

E invece no.

Perché la Pasqua non è il superamento festoso della Passione, ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza.

Le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è risorto.

L’amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite, indelebili, come l’amore. Dalle piaghe non sgorga più sangue ma luce, le ferite non sfigurano ma trasfigurano.

Allora capiamo che proprio attraverso i colpi duri della vita diventiamo capaci di aiutare altri attraversando le stesse tempeste, nella condivisione.

La nostra debolezza, come quella di Pietro, dei discepoli, di Maddalena, non è un ostacolo, ma una risorsa per meglio seguire il Signore. La debolezza non è più un limite, perché nonostante i nostri dubbi si trasfigura in un’opportunità da cogliere.

Per tre volte il Vangelo parla di pace donata da Gesù.

Ed è a questa esperienza di pace che Tommaso alla fine si arrende, e neppure sappiamo se abbia toccato o meno il corpo del Risorto.

Si arrende non al toccare, non ai suoi sensi, ma alla pace, passando dall’incredulità all’estasi, si arrende a questa parola che da otto giorni lo accompagna e che ora dilaga: Pace a voi!

La pace è una voce silenziosa, non grida, non si impone, si propone, come il Risorto; con piccoli segni umili, un brivido nell’anima, una gioia che cresce, sogni senza più lacrime. E ad essa ci consegniamo anche se appare come poca cosa, perché «se in noi non c’è pace non daremo pace, se in noi non è ordine non creeremo ordine» (G.Vannucci).

Non un augurio, ma una certezza: la pace è qui, è in voi, è iniziata.

Cerca aiuto per scendere su ogni cuore stanco, sulle nostre guerre, su ogni storia di dubbi e sconfitte.

Scende come benedizione gioiosa, immeritata e felice che mi spinge a osare di più; così inizia la mia sequela, la mia porta che si spalanca al rischio di essere felice.

P. Ermes Ronchi

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