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L’abbandonato s’abbandona


Ecco l’uomo! Appare al balcone dell’universo il volto di Gesù intriso di sangue. Il dolore sotto cui vacilla è quello di tutti noi, lungo le strade contorte della vita, nei sentieri indifesi della storia dell’uomo.

Eccolo, il Figlio di Dio!

Ciò che vediamo non è lo splendore dell’onnipotente, ma il patire di un Dio appassionato. «Dio prima patì e poi si incarnò. Caritas est passio. L’amore è passione e patimento » (Origene). «E chi ama di più si prepari a patire di più» (sant’Agostino).

Un patire che vedo in Lui e nelle donne che osservano da lontano, primo nucleo di timida Chiesa nascente. Guardano Gesù con lo stesso sguardo appassionato con cui Dio guarda l’uomo. Solo fra le donne Gesù non ha avuto nemici. La Chiesa nasce dalla contemplazione del Dio crocifisso. «A farci cristiani non sono i riti, ma il partecipare alla sofferenza di Dio» (Dietrich Bonhoeffer). L’ha capito, insieme con loro, un soldato esperto di morte: “costui era figlio di Dio”. Cosa ha visto in quella morte di così diverso?

Non dei prodigi, non l’annuncio della risurrezione. L’esperto di morte, in quella morte diversa, ha visto Dio. Un Dio capovolto, che non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso, non spezza nessuno, spezza se stesso.

Ha visto che il cuore della passione del Nazareno era una passione per Dio e per l’uomo.

Morire così è cosa solo da Dio, la sua rivelazione.

“Scendi dalla croce!” gridavano. Ma se scende, non è più il nostro Dio, torna a prevalere la solita logica umana che fa vincere il più forte.

E il soldato invece vede oltre; capisce che solo Dio non scende dal legno, che solo Lui si consegna alla Notte passando dall’abbandono di Dio («perché mi hai abbandonato?») all’abbandono a Dio («nelle tue mani…»), rappresentandoci tutti nei nostri dolori.

Vede il supremo potere che si disarma, dando vita e perdono a chi dà la morte, vede la violenza annullata perché presa su di sé.

Ha visto che questa nostra storia partorisce un’altra storia; che questo mondo porta un altro mondo nel grembo.

Io so che non capirò mai la croce, l’uomo non regge questo amore troppo limpido; ma Dio non è venuto perché lo capissimo, ma perché ci aggrappassimo a Lui, alla sua croce, lasciandoci sollevare in alto, nella risurrezione.

La fede è abbandonarsi all’abbandonato amore.

E noi qui, disorientati e stupiti come le donne, come il centurione, noi sentiamo che nella Croce c’è attrazione, c’è mistero, c’è seduzione e bellezza.

La suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, su quella piccola collina, dove il Figlio del Dio infinito si lascia inchiodare a un pezzo di legno, grande appena quanto basta per morirvi.

Come è stato per le donne, anche la mia fede poggia salda sulle mura più forti del mondo: un atto d’amore perfetto.

P. Ermes Ronchi

Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito

Oggi, la liturgia ci offre un aroma anticipato dell’allegria pasquale. Gli ornamenti del celebrante hanno un colore rosato. E’ la domenica “laetare” che ci invita ad una serena allegria «Festeggiate Gerusalemme, rallegratevi con essa voi tutti che l’amate...», canta l’antifona d’entrata.
Dio vuole che siamo contenti. La psicologia più elementare ci dice che una persona che non vive contenta, finisce ammalandosi fisicamente e spiritualmente. Orbene, la nostra allegria deve essere molto ben cimentata, dev’essere l’espressione della serenità di vivere una vita in tutta la sua pienezza. Diversamente l’allegria verrebbe a degenerarsi in superficialità e stupidaggine. Santa Teresa distingueva con saggezza tra la “santa allegria” e la “pazza allegria”. Quest’ultima è soltanto esterna, dura poco e lascia un sapore amaro.
Viviamo tempi difficili per la vita di fede.. Sono, però, pure tempi appassionanti. Soffriamo, in certo qual modo, l’esilio babilonico che canta il salmo. Sì, anche noi possiamo vivere un’esperienza d’esilio «Piangevano ricordandosi di Sion» (Sal 137,1). Le difficoltà esteriori, e specialmente il peccato, ci possono trasportare vicino ai fiumi di Babilonia. Nonostante tutto, ci sono motivi di speranza e Dio continua a dirci:«Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo» (Sal 137,6).
Possiamo vivere sempre contenti, perché Dio ci ama pazzamente, al punto «da dare il Figlio suo unigenito,» (Gv 3,16). Tra poco accompagneremo questo Figlio unico nel suo cammino di morte e risurrezione. Contempleremo l’amore di Colui che tanto ama, che si è offerto per noi, per te e per me. Ci riempiremo d’amore e vedremo Colui «che hanno trafitto» (Gv 19,37), e sorgerà in noi una gioia che nessuno potrà toglierci.
La vera allegria che illumina la nostra vita non procede da uno sforzo nostro. San Paolo ce lo ricorda: non procede da noi, è un dono di Dio, siamo opera sua (cf.Col 1.11). Lasciamoci amare da Dio ed amiamoLo, e l’allegria sarà grande nella prossima Pasqua e nella vita intera. Non dimentichiamo di lasciarci accarezzare e rigenerare da Dio con una buona confessione prima della Pasqua.

Rev. D. Joan Ant. MATEO i García (Tremp, Lleida, Spagna)

Tenere dentro un fuoco che brucia

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». […] In questo brano di Vangelo, incontriamo una parola che sembra messa lì quasi per caso, una parola un po’ desueta, che rimanda ad un sapore antico, ad un ricordo lontano: la parola zelo, che sta per ardore, fervore, passione; se andiamo al significato del suo termine greco, zèsis, troviamo ebollizione, significato che si ritrova anche nel sanscrito yas-ati: riscaldarsi, bollire. Ci sono cose, e sono le migliori, che si fanno solo per passione, quella passione che ci infoca, ci fa sdegnare e lottare di fronte alle ingiustizie e ai soprusi, in cui a spingerci è un impeto dinanzi allo sciupìo, o al disonore di una realtà. Sentiamo dentro una specie di furore che reclama rispetto, che grida e brucia. Anche noi siamo capaci di zelo, non quello che imprigiona e ci ingabbia nella rigidità di un pensiero o di una ideologia, non quello sbagliato di un possesso che non ammette libertà, ma anzi quello liberante, che sa aprire le sbarre di una prigionia, che fa volare. Che dà vita alle scintille. Questa passione anima Gesù, la passione per la sua “casa”: per il tempio che vede ridotto a mercato e per tutto quel che al mondo c’è di sacro. Bruciava Gesù quando piangeva su Gerusalemme e quando a Nain toccava la bara del bambino morto; ardeva quando davanti ad una folla di straccioni e miserabili li chiamava beati; e si scaldava di passione dinanzi al giovane ricco o a Zaccheo. È il fuoco di chi è perdutamente innamorato che parla alla samaritana, che salva l’adultera, che incrocia lo sguardo di Pietro subito dopo il suo tradimento. Quel fuoco che vuole restituire dignità e rispetto, fiducia e innocenza. La casa di Dio non è fatta solo di mattoni: com’era difficile da capire per i Giudei e a volte anche per noi: casa di Dio è il filo d’erba e il cuore dell’uomo, è la stella nel cielo e il bambino dalle mani sporche. Casa di Dio è tutto ciò che Lui può abitare, amandolo. Gesù vuole «incendiare le nostre abitudini» (Mariangela Gualtieri), appiccare un fuoco a tutto quel che sporca e disonora la sua casa, il sacro che ci abita e ci circonda. E noi altro non siamo che le scintille di quel fuoco, anche noi capaci di rompere il ghiaccio dell’indifferenza, di spezzare il gelo delle violenze, di sciogliere i lacci che annodano e soffocano. «Tieni dentro di te un piccolo fuoco che brucia; per quanto piccolo, per quanto nascosto» (Cormac McCarthy): tienilo dentro di te, non farlo spegnere, non permettere al freddo di insinuarsi, alle consuetudini di installarsi, alle comodità di accecarti. Scalda la vita con la tua passione.

Don Luigi Verdi

Sul monte con Gesù per imparare ad ascoltarlo


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». Pietro, Giacomo e Giovanni, sempre loro tre: oggi testimoni di una bellezza inaspettata, tra qualche settimana testimoni di un altro volto del loro Maestro, quello dell’angoscia del Getsemani. Ma oggi guardano attoniti, là sul monte, perché le cose belle avvengono “in disparte” come a dire nel mistero del cuore, guardano incantati quel che sta avvenendo sotto i loro occhi. Occhi increduli, sbigottiti, come quelli dei bambini. O come i nostri occhi, quando improvvisamente incontrano i colori di un tramonto, o la bellezza di un albero fiorito e, sempre, quando siamo innamorati. Roba da mettersi la mano sulla bocca, da sentire il fiato mozzato dallo stupore: un’apnea di felicità. Così saranno rimasti quei tre sul monte nel vedere Gesù, ancora sporco e impolverato dal cammino, risplendere di luce, con il vestito così candido e radioso da attirare tutta la loro attenzione. Non si sa cosa dire quando qualcosa di tanto fulgidamente bello irrompe nella nostra vita, si resta a balbettare, a ripetere «che bello, ma che bello!» E capita anche a noi di voler prolungare quella luce, di cercare di estenderla nel tempo, di volerci accomodare nell’estasi di quel momento. Ma, lo sappiamo bene, dura poco, sul monte con Gesù come nella nostra vita: resta solo, nel petto, quello squarcio di luce. A incoraggiare nei momenti di buio, a ricordarci che la luce c’è. «Scavalcare il muro d’ombra di ciò che appare, per cogliere l’intimità di ciò che vive nel profondo delle cose. Superare il banco di nebbia degli avvenimenti per capirne le linee di tendenza e afferrarne il senso definitivo. Leggere in trasparenza» (don Tonino Bello). Come sarà stato difficile, anche per i tre discepoli, e non solo quando la nube li avvolse, leggere in trasparenza. Che vuol dire leggere aldilà, vedere oltre, trovare il tempo di vegliare e resistere su ciò che non si vede, di oltrepassare il visibile. Com’è difficile per noi oggi restare aggrappati a quei brevi momenti di luce, dar spazio a quella continua inquietudine d’infinito. Solo un invito viene fatto a noi e ai discepoli: «Ascoltatelo!», solo questo può bastare per far ritorno a malincuore, con gli occhi ancora abbagliati, tra la folla e le fatiche di ogni giorno. Non ci saranno parole a spiegare, a raccontare, a far solo lontanamente immaginare quel che è accaduto: che il silenzio custodisca la luce, la protegga e le permetta di straripare dentro la vita, perché «non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale» (Wisława Szymborska). Nel petto solo quello squarcio di luce, che ci abita e trasfigura anche noi. 

Don Luigi Verdi

E il deserto insegna a fidarsi e affidarsi


Il  Vangelo di questa domenica sembra condensare i nostri momenti più difficili e bui, sparge su di loro il profumo della vita, ci insegna, come sempre, a non aver paura. Gesù accarezza debolezze e fragilità, ci infonde calma e ci fa scoprire che in realtà anche il deserto è un momento sacro, pur se impastato e intriso di contraddizioni. Bestie ed angeli convivono, qualcosa ci spaventa e qualcosa ci consola, qualcuno ci accarezza mentre un altro ci ferisce. È bello che l’evangelista Marco non ci parli delle tentazioni, quelle che invece ci vengono raccontate da Matteo e Luca. Forse a Dio non importa la forza che mettiamo nel vincere le nostre debolezze; Dio non ci vuole eroi che riescono in tutto, ma pienamente umani. Lui sa bene che ci sono bestie ed angeli che ci accompagnano e ci chiede, piuttosto, di riuscire a stare in loro compagnia senza farcene spaventare, integrarle nel nostro faticoso vivere, come l’albero che accetta l’arsura dell’estate e il gelo dell’inverno. Arreso ma fiducioso.
Vorremmo che tutto fosse perfetto e scorresse placidamente senza intoppi e interruzioni, senza stridii e lacerazioni e invece questo Vangelo ci indica la strada della comprensione, del saper tutto accogliere e benedire: grano e zizzania lasciati crescere insieme, cielo e terra che coincidono.
Posso fidarmi, posso affidarmi. Anche quando tutto mi sembra stonato sento il sapore della vita che mi stringe alla vita, per cantare nel vento che spinge, nello Spirito che mi conduce a scoprire l’armonia presente nelle dissonanze. Come un abbraccio che tutto raccoglie.
«Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia», scrive Ungaretti , E è il supplizio di tutti: spezzati, divisi, lacerati. Continua, il Vangelo, con le parole di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino». Un “qui e ora” che interrompe le vuote attese, uno spazio e un tempo finalmente riempiti, un invito a scrutare nelle pieghe della vita perché lì, proprio lì, è imprigionata la luce. Basta guardare meglio: il paradiso trabocca dalla vita, granello di senape nascosto nell’attimo, pronto a crescere e farsi nido di nuovi germogli.
La zolla arida del nostro deserto sente e avverte il mistero della pioggia, si tende a riceverla, a farsi culla. «Ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). E allora provo, come un fiore pestato nella notte, a fiorire come un arcobaleno. Provo a tornare povero come la natura e semplice come i cieli.
E sento nuovamente che la vita vera sta dietro a ciò che chiamiamo vita. Posso fidarmi, posso affidarmi. Il seme del regno è già qui, tra le mie mani tremanti, nel mio cuore incerto e dubbioso, ma qui. Ed è pronto a sbocciare.

Don Luigi Verdi

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